È terribile la gravità del giro di prostituzioni minorile venuto a galla qualche giorno fa a Roma. Una madre nota che sua figlia è diventata violenta e aggressiva, fa delle indagini e si accorge che la quindicenne è finita, con alcune sue amiche, in un turbine di sesso a pagamento e di droga. I giornali hanno giustamente dato spazio alla notizia; anche se non si riesce ad evitare la fastidiosa sensazione di un certo compiacimento nelle descrizioni dei particolari. Come scrive Luigi Pareyson nel suo importante saggio su Dostoevskij descrivendo l’inizio di Delitto e castigo: «Una fanciulla giovanissima barcolla per la strada, completamente ubriaca, vittima di chi l’ha oltraggiata crudelmente, e poi, rivestitala con mani inesperte, la butta via sul marciapiede, abbandonandola al suo triste destino, e infatti v’è già chi ne spia i movimenti, pronto a profittarne senza riguardo», magari solo per gusto voyeuristico di lettore.
Dostoevskij ha avuto più di altri il coraggio di gettare lo sguardo sull’abisso del male. Per lui la profanazione dell’infanzia – come quella rivelatasi nei citati fatti di cronaca – è forse la più grave manifestazione del male. Luciferina incarnazione ne è l’oscuro protagonista de I demoni, Nikolaj Stavrogin. «La sua libertà, scrive ancora Pareyson, è puro arbitrio, e, non avendo davanti a sé nessuna norma da violare, non ha nemmeno alcuno scopo da proporsi e da raggiungere, e si dissolve nell’indifferenza, nella noia, nella sperimentazione, nell’annientamento». Trascinato da questa «noia», Stavrogin approfitta di una bambina, che poi osserva con «indifferenza» cadere nella disperazione fino al suicidio.
Si debbono certamente anche fare accurate analisi sociologiche e psicologiche per capire come mai adulti apparentemente rispettabili si trasformano in orchi che aspettano le bambine fuori dalla scuola e chiedono loro la «sperimentazione» di prestazioni sessuali sempre più raccapriccianti. E per capire anche come mai le bambine stesse accettano, e in cambio di che cosa, una simile degradazione.
Tuttavia non possiamo far finta di non accorgerci che una società in cui avvengono cose simili è una società gravemente malata, pericolosamente avviata verso il baratro del nichilismo. Quella di Stavrogin, infatti è, per usare ancora le parole di Pareyson, una «enorme forza senza impiego, destinata a distruggersi, a scatenare il disordine e la morte negli altri e a distruggere se stessa nel nulla». Il male infatti è essenzialmente una negazione; tutti i personaggi di Dostoevskij che ne incarnano le infinite sfaccettature stanno lì a dimostrarlo; lo stesso Stavrogin non potrà fare altro, al termine della sua parabola, che annientare se stesso nel suicidio. Perché, scrive ancora Pareyson, «il male prima nega tutto ciò che giunge a distruggere, e poi distrugge se stesso; cioè si riconosce come negazione, distruzione, non essere, in una parola come male». Ma proprio in questo estremo abisso si può cogliere il rovesciamento: l’autodistruzione cui conduce il male mostra che «solo il bene esiste veramente, che solo nel bene c’è vero compimento».