Albert Camus è un maestro per tutti quelli che, in mezzo alla nebbia ideologica, cercano di leggere e formulare la propria esperienza umana in un modo trasparente e diretto. In questi giorni, in cui si celebra il centenario della sua nascita, ciò è ancora più evidente. A Camus piaceva definirsi un combattente. E ha combattuto molte cause: ha spezzato la tirannia di un marxismo che si considerava imprescindibile e ha usato i suoi articoli sui giornali per lottare contro molteplici abusi di potere. Ma la sua battaglia principale era riscattare la vita in un secolo particolarmente spietato con le ragioni elementari che permettono a ciascuno di vivere. Un’eredità, quella del XX secolo e del filosofo algerino, che ancora sopravvive.
In pochi si può percepire una ricerca sul desiderio sostenuta con intensità per cercare di attraversare l’oscurità dei tempi moderni come in Camus. Nel protagonista de “Lo straniero”, ritratto di un nichilismo che ben conosciamo, questo desiderio sembra morto. Se c’è qualcosa che attira l’attenzione in questo romanzo, che fu rivoluzionario all’epoca (1942), è che il suo protagonista vive tutto – la morte di sua madre, l’omicidio, la condanna a morte – senza cambiare, come se stesse capitando a qualcun altro. “Tutti sanno che la vita non merita di essere vissuta”, confesserà. Lo straniero parla di se stesso solo a chi gli assicura che le cose hanno un senso. L’unica aspirazione che ha è la morte. “Perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione”. Questo non ci è in qualche modo famigliare? Questa estraneità di noi stessi verso tutti gli altri non è quella che ci siamo trovati a sperimentare o che sperimentiamo quando ci illudiamo di costruire il nostro destino con le nostre mani?
Camus va oltre e sa che non tutto è perduto. È impossibile rimanere impassibili, soprattutto rispetto a ciò che uno si porta dentro. E due anni dopo il suo “Caligola” narra la storia di un imperatore che, nonostante tutto, continua a desiderare. Non qualunque cosa, ma la Luna. Tutti lo prendono per pazzo e lui spiega quale è la sua malattia: “Io che desidero oggi con tutte le mie forze sono sopra tutti gli dei”. Non trova una risposta, ma il motore che lo porta verso l’infinito non può fermarsi. E non trovando soddisfazione fa sgorgare con il potere dell’impero un fiume di sangue sotto i colpi del suo capriccio e della sua infelicità. Il lettore si sente descritto: non c’è modo di frenare l’ardore che reclama l’irraggiungibile e che, non trovando risposta, si trasforma in una fonte di arbitrarietà e violenza.
Sarebbe stato già tanto arrivare a questo punto, ma Camus, il combattente, va ben oltre. Lo spietato Caligola si trasforma nel Jacques de “Il primo uomo”, il suo romanzo postumo. Il protagonista, contro l’eredità di Freud, cerca la pace nel padre. È qualcuno caratterizzato da “un appetito divoratore per la vita”, che “non desidera un qualche luogo, ma la gioia, l’essere liberi, la forza e tutto quello che di buono, di misterioso ha la vita e che non si può comprare, né mai si comprerà”. La ricerca non è più distruttiva, ma desiderio di altra vita: “Volevo fuggire in un paese dove nessuno invecchiasse, né morisse, dove la bellezza fosse eterna, dove la vita fosse sempre splendente e selvaggia”. Di fatto, non è altro che un “cuore angustiato, avido di vita, in rivolta contro l’ordine mortale del mondo, che vuole andare più lontano, più in là e conoscere prima di morire”. È cosciente del fatto che “non gli basta tutta la sua energia per costruire, conquistare o comprendere il mondo”. E si abbandona così “all’unica speranza cieca sul fatto che quella forza misteriosa, che per tanti anni lo aveva sollevato nonostante il passare dei giorni e che lo aveva alimentato senza sosta gli desse, con la stessa generosità con cui gli aveva dato le ragioni per vivere, le ragioni per invecchiare e morire senza ribellarsi”.
Questo desiderio di “più vita” e di “più in là” è così potente nell’ultimo Camus, e così forte in noi, che non può essere figlio di un padre il cui volto si nasconda dietro una tomba anonima. È piuttosto il tono di una voce ben viva.