Nel suo saluto al nuovo pontefice che ha varcato per la prima volta la soglia del Quirinale, ieri, il presidente della Repubblica ha subito chiamato in causa la storia, quella in particolare che lega la sede istituzionale della massima carica dello Stato italiano alla plurisecolare identità politica del papato. Volendo sottolineare il proprio rapporto “non formale” con Francesco, dettato piuttosto da sentimenti di spontanea simpatia e vicinanza umana suscitati dall’inedito stile papale, Napolitano in realtà ha ribadito di fatto l’essenzialità dei rapporti diplomatici tra Stato e Chiesa. In questo senso si spiegano i dettagliati riferimenti del presidente alla presenza dei Patti lateranensi all’interno della Carta costituzionale del 1947, e ai successivi sviluppi concordatari; così come il suo ampio richiamo alla lunga vicenda che ha visto un confronto – in origine, va detto, non certo sereno per via della questione romana – approdare a un equilibrio superiore ispirato ai principi di distinzione di ambiti e, a un tempo, di collaborazione (secondo la recente espressione di Benedetto XVI). Una storia, pertanto, che secondo Napolitano ha portato ultimamente nella Penisola all’affermazione di una cultura politica ispirata alla laicità delle istituzioni civili, e nel contempo al libero esercizio delle funzioni della Chiesa in termini di spiritualità e promozione umana.  



Il presidente, ben conscio della socialità “a 360 gradi” di papa Francesco, lo ha fatto accogliere da rappresentanze formali ma anche sostanziali, come in particolare quelle provenienti dal mondo della cultura e della solidarietà. È stato quindi lo stile del pontefice a dettare, in qualche modo, le modalità dell’approccio tra le due figure istituzionali, a tal punto da indurre Napolitano – non dimentichiamolo, un uomo politico che è autorevolmente parte di diritto della storia del Pci – a utilizzare un’espressione propriamente ecclesiale come quella di “pastoralità” nel riflettere sulla qualità delle reciproche relazioni, o ancora nel descrivere l’attitudine di Bergoglio al confronto umano amorevole e individuale; o, ancora, a citare esplicitamente il Concilio Vaticano II per descrivere la sua propensione al dialogo aperto con i “più lontani”. 



Ma Napolitano è andato anche oltre, quando ha richiamato apertamente la responsabilità civile e culturale dell’Europa nei confronti dell’attuale decadimento sociale, agganciandone il ruolo ad una tavola di valori universali – rispetto della dignità umana, tolleranza, giustizia, solidarietà, in cui egli vede esplicitamente “il segno del retaggio cristiano”: verrebbe da chiedersi se un approccio così rispettoso, e a un tempo chiaro, al tema delle radici morali dell’Europa non avrebbe aiutato a superare quelle incomprensioni che, tra le altre, hanno collaborato a far affossare nei contrasti ideologici il trattato costituzionale europeo durante la metà degli anni Duemila. 



E ancora, è notevole l’insistenza del presidente sul tema della solidarietà – certo dettata dalla ormai drammatica contingenza economica in cui versa il Paese; un campo, quello dell’attenzione agli ultimi, in cui egli vede piena convergenza – appunto nella distinzione – tra la Chiesa (“detemporalizzata”) e la Repubblica Italiana, ma di cui alla prima riconosce il profilo di “valore proprio”, mentre lo vede assegnato alla seconda piuttosto come compito, per così dire, operativamente “statutario”.

E infine, forse il momento più alto di questo discorso presidenziale – va detto, di spessore assoluto, e che entrerà molto probabilmente negli annali storici – cioè l’indicazione della testimonianza personale di papa Francesco come modello di stile politico all’Italia di oggi dilaniata dalle, spesso basse, polemiche partitiche, è anche il passaggio che più fa riflettere: l’insegnamento di Bergoglio concentrato sul dialogo, sulla partecipazione, sul rispetto, secondo Napolitano, in questo senso si può e si deve rivolgere ai credenti e anche ai non credenti impegnati nella politica. Una “sapienza” morale che se è cristiana di origine, non è destinata solo a coloro che oggi cristiani si sentono, pure nell’esercizio delle funzioni pubbliche; una sapienza alla quale tutti hanno pertanto il diritto di attingere con pari dignità, intra come extra ecclesia, della quale comunque il presidente riconosce in papa Francesco un interprete di alto livello, coerente e appassionato.

Nell’invocazione: “Dialogo, dialogo, dialogo!”, Giorgio si sente all’unisono con Francesco; proprio nel singolare affiancarsi e quasi identificarsi per alcuni tratti a una figura apparentemente così lontana da lui, in termini di storia e cultura politica, la figura di Napolitano è sembrata ieri approssimarsi a quell’idea così banalmente abusata nell’attuale dialettica dei partiti, e a un tempo così tragicamente lontana da essa: l’immagine di uno statista.