Mariano Rajoy ama definirsi un uomo prevedibile. Quello che per un qualsiasi amante della creatività suonerebbe come un insulto, all’uomo che ha vinto due anni fa le elezioni sembra il miglior complimento. Il grande merito del governo di centrodestra è aver impedito un salvataggio che avrebbe comportato un passo indietro di 20 anni. Gli aiuti europei sono stati parziali, solo nel settore bancario, e la settimana scorsa la Spagna ha chiesto di porvi termine.

Rajoy ha saputo reggere la pressione e dopo le prime titubanze è riuscito, grazie al buon lavoro del ministro dell’Economia, Luis de Guindos, a ristrutturare e risanare le casse di risparmio. Gli investitori hanno riacquistato fiducia nelle attività spagnole, lo spread non è più un problema e sembra che l’obiettivo di riduzione del deficit per il 2014 sia raggiungibile senza grandi problemi.

Nel primo anno di questa legislatura sono state fatte riforme importanti, come quella del lavoro. Ma la fatica per il cambiamento si è fatta presto sentire. I tagli, in particolare nelle Comunità autonome, si sono avvertiti dove più fa male: sanità e istruzione. E ora Rajoy deve andare ancora avanti con le altre faticose trasformazioni che sono necessarie per portare il deficit al 3% del Pil nel 2016 e, soprattutto, perché l’alta disoccupazione in Spagna non diventi cronica.

Il governo è convinto che la lieve crescita economica dei prossimi anni consentirà di cominciare a creare posti di lavoro e di sistemare i conti pubblici. Bisogna ridurre la spesa o aumentare le entrate di 38 miliardi. Rajoy spera di farcela con più gettito e c’è chi dice che sia troppo ottimista. Un test decisivo della sua volontà riformatrice sarà dato dalle nuove norme fiscali che vuol presentare nel 2014. La classe media paga molte tasse, le famiglie sono chiaramente discriminate e l’evasione è alta. Resta inoltre ancora molto da fare per aumentare la competitività. E la spesa pubblica, soprattutto delle Comunità autonome, continua a essere elevata in alcuni settori. Il mercato interno resta frammentato e non c’è un progetto chiaro per creare un modello economico che integri i servizi e il turismo.

Il bilancio economico a breve termine è positivo, vedremo cosa si potrà dire tra qualche anno. Ma non c’è solo l’economia. Su altri fronti si è creata insoddisfazione. Il modo di far politica di Rajoy in questi due anni ha aperto molto poco il Governo alla società. Regna il verticalismo. In realtà, l’intero esecutivo è in mano alla vicepresidente, Soraya Sáenz de Santamaría, che “telecomanda” quasi tutti i ministeri. Questo eccessivo centralismo, unito all’incapacità di comunicare, ha fatto sì che gli spagnoli, a cui sono stati chiesti grandi sforzi, abbiano sempre meno stima dei politici. L’antipolitica cresce a causa di una gestione molto fredda della cosa pubblica.

Proprio l’ermetismo è stata una delle cause del fatto che la riforma dell’istruzione, che è sul punto di vedere la luce, nascerà quasi morta. Il miglioramento dell’insegnamento era ed è una delle questioni decisive perché il Paese torni a essere forte. La nuova legge non tiene conto del valore delle scienze umanistiche, non sfrutta l’occasione per tutelare in maniera effettiva la libertà educativa, che è quella che garantisce risultati migliori, e si limita a mettere delle toppe al fallito modello socialista. Il miglioramento delle università è stato rinviato sine die, la promozione della ricerca è stata tenuta in disparte e la politica culturale è stata messa nelle mani di persone che potrebbe militare nella sinistra.

Era prevedibile che Rajoy non facesse una controriforma del radicalismo sociale di Zapatero. La soddisfazione con cui ha accolto la decisione della Corte costituzionale di convalidare il matrimonio omosessuale ha certificato che la sua è una destra laica. Lo dimostra anche il fatto che dentro al Partito popolare c’è una grande resistenza a una modifica della legge sull’aborto che migliori la tutela della vita. Nonostante tutto, però, la freddezza dei popolari resta al momento preferibile al laicismo aggressivo della sinistra.

Questa volontà del Pp di prendere le distanze da quello che in altri tempi veniva definito, in modo un po’ ambiguo, “l’umanesimo cristiano” può essere una buona opportunità. Allontana ogni possibile progetto di costruire una presenza cattolica dall’alto che dia per scontato il contenuto della fede. Lo scenario è così più chiaro: nessuna egemonia è possibile, né desiderabile. La presenza cristiana andrà avanti solamente se ci sarà la testimonianza di una vita più umana che reclama spazi di libertà.

La capacità di proteggere questa libertà, di dare maggior protagonismo alla società, di avviare il cambiamento del welfare per renderlo più sostenibile, così come l’uso che verrà fatto di un’energia serena per frenare i nazionalismi e le loro rivendicazioni separatiste, saranno alcuni dei criteri per valutare gli ultimi due anni che restano a questa legislatura. Non basterà quindi utilizzare come argomento elettorale la paura del ritorno del vecchio fronte popolare, quello che unì, in altri tempi (all’alba della guerra civile spagnola, ndr), la sinistra e il nazionalismo radicale.