La Chiesa di JFK

Nel cinquantenario dell’assassinio di J. F. Kennedy, LORENZO ALBACETE rievoca i problemi posti dal suo cattolicesimo e l’attualità del rapporto tra libertà religiosa e vita pubblica

Per me, e per tutti quelli di noi, purtroppo in costante diminuzione, che ricordano il 22 novembre del 1963, non vi è in questa settimana notizia più grande di quella che riguarda il cinquantesimo anniversario dell’assassinio del Presidente John F. Kennedy. Forse, sarebbe meglio dire la più “profonda” piuttosto che la più “grande”, perché è difficile misurare simili esperienze.

In ogni caso, questi giorni mi hanno riportato quella sensazione di vuoto, di disperazione, di abbattimento e di rabbia che aveva riempito il mio cuore cinquant’anni fa.

Io ero venuto ad abitare e studiare a Washington nel pieno della campagna per la presidenza che vedeva l’uno contro l’altro Nixon e Kennedy. Vivendo nella capitale, mi ero trovato subito immerso in uno scontro politico che mi era subito apparso, semplicemente e chiaramente, lo scontro tra il Nuovo e il Vecchio. E’ lo stesso giudizio che do ora, quando ripenso ai quei giorni di cinquant’anni fa. Allora avevo 17 anni e non potevo neppure votare, ora ne ho 72 e, in tutti questi anni, non ho mai votato con pieno entusiasmo.

Il numero di chi ha continuato ad amare Kennedy incondizionatamente è nel tempo diminuito, anche a seguito delle scoperte sui segreti della sua vita privata e sulla sua durezza in politica. Si è capito che Kennedy era più Lancillotto che Re Artù e Camelot, alla fine, è vera solo nella finzione di Broadway. Adesso sappiamo tutte queste cose e qualcuno di noi le conosceva o sospettava già da prima (dopo tutto sono latino, non anglosassone).

Tutto sommato non importa ora come non importava allora. Tuttavia, vi è un tema che non è stato sufficientemente affrontato, con una certa mia delusione, durante la campagna di allora, né lo è ora: il cattolicesimo e il concetto americano di libertà.

Vale la pena di ricordare il discorso di Kennedy ai ministri protestanti a Houston, il 12 settembre del 1960, quando il suo essere cattolico minacciava di diventare un serio problema per la sua campagna elettorale. Io stesso ho assistito, in quel periodo e soprattutto alle fermate del bus, a manifestazioni di aspra propaganda anticattolica.

A Houston, Kennedy disse che non aveva nessuna importanza quale fosse la Chiesa in cui credeva, ma era importante in quale America credesse. Ma, mi sono chiesto allora e continuo a chiedermi ora, possono le due cose essere davvero tenute separate? Allora Kennedy affermò che la questione della Chiesa era esclusivamente un suo affare, non degli elettori. Se così, allora perché non rimandare alle loro Chiese i ministri cui invece stava parlando?

Nei passaggi successivi del suo discorso, Kennedy parlò anche delle implicazioni della separazione assoluta tra Chiesa e Stato. Ma non è questo il problema. Il punto è se devono essere rispettate tutte le espressioni pubbliche della fede, o solo quelle racchiuse nell’area del culto. Questo tema è attualmente discusso vivacemente per quanto riguarda l’applicazione della riforma sanitaria e il dibattito che su di essa è in corso.

Tornando al passato, in quell’occasione Kennedy avrebbe potuto descrivere il pluralismo cattolico nel modo in cui lo fece in seguito: “Le suore votano per me, i monsignori per Nixon“.

Questa frase da sola gli avrebbe assicurato il mio voto, allora, e ora… come un monsignore per Kennedy.

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