È il giorno successivo alle catastrofiche alluvioni che hanno devastato la Sardegna e provocato, oltre a gravi devastazioni, la morte di 16 persone. Sono a messa e, durante la preghiera dei fedeli, il sacerdote eleva un’invocazione a Dio per le vittime – dice – «delle calamità naturali ma anche delle colpe umane». In questa breve prece emerge tutto il bisogno di giustizia che noi uomini ci portiamo dentro. Non c’è infatti bisogno di star lì molto a pensarci per capire che case improvvisamente invase dal fango, feconde coltivazioni devastate dall’acqua, ponti e strade divelti dai flutti e soprattutto vite spezzate dalla furia degli elementi – siano esse nel germoglio dell’infanzia o nella veneranda vecchiaia, siano esse quelle dei colpiti o quelle dei soccorritori -; non ci vuol molto a capire che tutto questo è ingiusto. Se poi si pensa a quello che è successo pochi giorni prima nelle Filippine, dove le dimensioni del disastro sono centuplicate, il senso di ingiustizia si fa ancora più lacerante.

È ingiusto perché non doveva succedere così. Ma se così è successo, proprio il nostro bisogno di giustizia ci spinge a chiederci di chi sia la responsabilità di quel che è capitato, chi ne sia la causa. Risulta ovvio e immediato cercare questo «chi» nell’orizzonte dei fenomeni che possiamo facilmente spiegare, a quel livello dei rapporti causa-effetto che ci è più familiare e comprensibile. Ecco allora chiarito il «ma anche delle colpe umane» di quel sacerdote. E le colpe umane, remote o immediate, anche in questo caso ci sono state e i giornali ne hanno parlato a lungo: individuare e punire tali colpe (sempre che lo si faccia «giustamente» e non per frettolosa ricerca di un qualsiasi capro espiatorio) fa parte del nostro bisogno di giustizia.

Resta però il fatto evidente che ciò che sentiamo ingiusto può non trovare spiegazione esauriente nell’elenco delle responsabilità, o meglio irresponsabilità, umane.

Ci sono fattori che non si possono attribuire all’incuria di questo, alla cattiveria di quell’altro, alla sbadataggine o alla avidità, né a nessun’altra azione che l’uomo abbia fatto o non fatto. Quando il sacerdote parlava di calamità «naturali» alludeva senz’altro a questo tipo di cause. Qui il problema di avere giustizia è più complicato. Possiamo prendercela con la natura (o anche con Dio) ed accusarla di aver fatto una cosa ingiusta, ma non siamo in grado di comminare nessuna pena, né, tantomeno, di esigere un risarcimento. Quindi il nostro bisogno di giustizia rimane necessariamente frustrato. Viene allora il sospetto che anche la «giustizia» che abbiamo ottenuto condannando i colpevoli umani e obbligandoli a restituire quello che hanno tolto non è del tutto soddisfacente; anche perché il figlio, la moglie, l’amico morto nell’alluvione non ce lo possono certo ridare.

Quando ci troviamo di fronte a cause «naturali» di un evento ingiusto ci accorgiamo che la giustizia autentica, quella che desideriamo, non la sappiamo trovare, non la possiamo produrre. Forse per questo il nostro bisogno di giustizia si placa soltanto partecipando al grido del profeta Isaia, voce di tutta l’umanità: «Rorate coeli desuper et nubes pluant justum».