Ne parlano tutti: dal parrucchiere, in coda al supermercato o nelle cene più esclusive. La settimana scorsa un settimanale spagnolo ha intervistato José Maria Aznar, che ha pubblicato la seconda parte delle sue memorie, e l’unica domanda non politica che gli è stata fatta riguarda il Papa. L’ex Premier ha detto: “I non credenti sono molto contenti di Francesco, mentre alcuni cattolici sono un po’ sconcertati”. Aznar ha così descritto, in maniera abbastanza sintetica, una situazione che pochi osano ammettere.



Molto non cattolici seguono con curiosità il Papa. Attraverso Francesco scoprono un mondo nuovo, un cristianesimo che non è innanzitutto un giudizio morale (basta pensare alla perplessità positiva di fronte alle sue dichiarazioni sull’omosessualità), né l’affermazione dei valori derivanti dal diritto naturale, ma l’annuncio di una misericordia, dell’abbraccio della grazia e di un avvenimento che porta gioia. I suoi gesti di povertà, di dolore per gli immigrati morti, di devozione per le periferie hanno fatto sì che tutto un mondo che riteneva chiusa la questione della fede sia ora interessato a ciò che aveva sempre guardato con sospetto.



Contemporaneamente, molti cattolici sono inquieti. Non hanno il coraggio di dirlo pubblicamente, ma si sentono a disagio per il fatto che Francesco parli tanto e temono che a volte possa essere impreciso. Gli ha dato fastidio il colloquio con Scalfari, sia quello scritto che quello orale, perché il Papa ha detto che la verità non è assoluta e ha esaltato il valore della coscienza come criterio; perché ha parlato dei dubbi che avuto in passato sulla fede; per i suoi modi troppo “locali”, da porteños (come vengono chiamati gli abitanti di Buenos Aires), quasi peronisti; per la sua sincerità nel parlare dei peccati del Vaticano; per il suo modo, che sembra troppo semplice, di affrontare le sfide culturali e storiche della post-modernità. E c’è smarrimento di fronte all’ipotesi, ancora non formulata, che Francesco sia troppo Francesco, troppo ingenuo. Si teme che si sia fatto irretire da un idillio con i media che alla fine porterà solo guai. Come se la stampa e la televisione, che tanto lo ammirano, lo stessero strumentalizzando per proiettare un’immagine del cristianesimo molto mondana e naif.



È logico che ci sia una certa perplessità, ma i fatti sono ricorrenti e non bisogna temerli. Non è da escludere che molti abbiano voluto vedere in Francesco una conferma dei propri vecchi schemi. Tuttavia il “successo” del Papa non è una moda, ma il risultato di un modo di vivere e di porre il cristianesimo di fronte al mondo. 

Quando un uomo, davanti a tutti, chiarisce che non ha altra ricchezza personale, altro criterio di governo o apporto da offrire se non la gioia che ha ottenuto attraverso Gesù, succede quello che stiamo vedendo da ormai più di sei mesi.

Persino gli uomini più lontani, a cui mai sono arrivati i programmi pastorali, si sentono attratti da qualcosa che implicitamente o esplicitamente avevano sempre desiderato: un’esperienza in cui la tenerezza del Mistero di Dio è una compagnia abituale, un amore palpabile che attraversa i giorni e le ore, che riempie di bellezza e permette di guardare gli altri con una compassione inimmaginabile. Alla gente interessa questo modo di vivere la fede che va direttamente all’essenziale e che diventa visibile attraverso un’umanità più grande.

Questo ritorno all’essenziale, a “Cristo e a tutto ciò che viene da Lui”, per dirla alla Soloviev, è il criterio che Francesco sta proponendo a tutti per affrontare le sfide di una post-modernità globale. L’essenziale lo vediamo nel Papa in azione: questa è la forza della sua testimonianza. Forse per comprendere meglio la fecondità della sua posizione, ai cattolici conviene guardare con gli occhi di chi non crede. La sorpresa con cui gli ebrei, gli atei, i giornalisti cinici e un vasto elenco di eccetra guardano al Papa può essere un buon riferimento per i cristiani di sempre.