Ripartire da noi

RICCARDO BONACINA commenta la ricerca del Censis "I valori degli italiani 2013. Il ritorno del pendolo", da cui emerge una crescente voglia di aiutare il prossimo nonostante la crisi

Certo che a leggere la ricerca del Censis “I valori degli italiani 2013. Il ritorno del pendolo”, c’è d’arrabbiarsi. Cosa ci dice la ricerca? I risultati della ricerca del Censis evidenziano che l’egoismo ci ha stancato e che si fa largo la percezione che se ci sarà riscossa, se ci sarà ripartenza, sarà una ripartenza “insieme”, mai più da soli. Gli italiani hanno voglia di altruismo, tanto che aiutare chi è in difficoltà trasmette maggiore energia positiva che non l’idea di occuparsi del proprio benessere in palestra o in un centro estetico. Il 29,5% degli italiani afferma di ricevere moltissima carica dalla possibilità di aiutare qualcuno in difficoltà, e la percentuale rimane costante in tutte le classi di età, segno di una voglia comune di ritrovare l’altro.

Così come gli italiani si dicono “disponibili” all’aiuto di fronte al bisogno degli altri. Il 40% degli italiani si dice molto disponibile a fare visita agli ammalati. Più del 36% si dice pronto a rendersi disponibile in caso di calamità naturale, per contribuire al bene comune. Il 37% si dice molto o abbastanza disponibile a dare una mano nella manutenzione delle scuole (il 21% è “molto” disponibile). Questa percentuale al Sud aumenta fino al 41%, 6 punti percentuali in più rispetto al Nord-Ovest: evidentemente, laddove il bisogno è più forte, gli italiani sono pronti a mettersi in gioco. Anche per la manutenzione delle spiagge e dei boschi, più di un terzo degli italiani si dice pronto a collaborare (il 34%).

Il 59% degli italiani, dice ancora la ricerca del Censis, afferma che curare la propria spiritualità procura una buona dose di energia positiva. Si diffonde una sorta di “papafrancescanesimo”. La figura del nuovo Papa sta risvegliando in molti l’interesse non solo per la fede, ma più in generale per la vita spirituale e il gusto per una certa frugalità nei consumi. E quale cultura del lavoro si affermerà nel prossimo futuro, è stato chiesto. Meno competizione e più collaborazione è la risposta. Il 35% degli imprenditori italiani ritiene che collaborare bene con i colleghi darebbe molta carica. E così la pensa quasi il 31% degli artigiani.

Quindi, desume la ricerca, la crisi antropologica che ha profondamente segnato il Paese (l’egoismo diffuso, la passività, l’irresponsabilità, il materialismo spinto) potrebbe essere giunta alla fine della sua propagazione e le energie per una inversione di rotta ci sono tutte, anche se in forma potenziale, da attivare. Ecco il problema, chi potrà attivare questa disponibilità? E come attivarla?

Di certo, non la politica, o il Governo, o la Legge di Stabilità. Non i politici, in qualsiasi parte si collochino, che dimostrano una volta di più di non capire che sono i capitali morali, civili, spirituali quelli che hanno generato economia, industria, artigianato, lo sviluppo “molecolare” della civiltà italiana. La forma decisiva di capitale che i nostri antenati ci avevano consegnato e che è in rapido deterioramento è stato proprio il capitale umano, la tenuta umana e spirituale che poggiava su una fede semplice e popolare e autentica. Lo sviluppo economico italiano del secondo Novecento è stato generato anche da un grande patrimonio spirituale ed etico fatto da milioni di donne e di uomini educati e abituati alla sofferenza, fatica del lavoro. C’era questo “spirito” popolare dentro il nostro capitalismo buono. Il capitale spirituale della persona, e quindi delle famiglie, delle comunità, delle scuole, delle imprese, che è sempre stato la prima forma della ricchezza. Una persona, o un popolo, continua a vivere e non implode durante le crisi finché ha capitali spirituali cui attingere. Non si riesce a dar vita a un’impresa, a trovare le risorse morali di avventurarsi in cammini rischiosi per sé e per gli altri, a convivere con il rischio, con le avversità di cui è composta la vita imprenditoriale, senza capitali spirituali personali e comunitari.

Questo la politica non lo capisce, neppure il “primo Governo di sussidiarietà nazionale” (come con una felice definizione giornalistica è stato chiamato il Governo Letta). Investire sulla crescita di questi capitali, famiglia, educazione, impegno civico non è qualcosa che viene dopo, se avanzano soldi, ma è la condizione stessa per lo sviluppo. Non capirlo è cosa tragica. Non capire che questo Paese, con il 40,2% di disoccupazione giovanile, con quasi 3 milioni di giovani che né lavorano né studiano ha bisogno di una leva civica, anche obbligatoria, e non più di un Servizio civile che ingaggia meno di 900 ragazzi italiani, è cosa oltre che tragica, vergognosa.

Come si può attivare, allora questa disponibilità e questo sentiment che la ricerca Censis rileva? Il punto di ripartenza, per rigenerare il capitale sociale, spirituale, comunitario, ha a che fare con il risveglio dell’io, di ciascuno di noi, delle nostre comunità. Cari amici, è vero, è innanzitutto una questione antropologica non economica. E la gratuità è la scintilla prima e originaria di ogni gesto, ed è l’unica scintilla che può nutrire socialità e comunità. È importante capirlo, alla fine di un ciclo economico ma anche alla fine di un ciclo che riguarda le stesse organizzazioni della società civile e le loro rappresentanze sedute su posizioni di rendita. Non ci sarà nessuna ripartenza se non saremo in questione noi, noi come persone capaci di gesti e di impegno. Gesti che scrivano pagine nuove, che rischino la scrittura di pagine nuove che appoggiano sì sulla memoria e sulla coscienza di ciò che la tradizione ci ha consegnato ma che non ne siano prigioniere.

Ma, per osare gesti nuovi, dobbiamo però amare il nostro tempo, non dobbiamo lamentarci del tempo, ce lo ricorda sempre Papa Francesco “Non lamentatevi”. E lo diceva anche Sant’Ambrogio, diciassette secoli fa: “Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi!”. Non dobbiamo lamentarci del tempo che viviamo, il tempo è un gran regalo, è il nostro tempo, il tempo che ci è dato, è il tempo di riscoprire come un nostro gesto possa generare dignità e bellezza. Come ha scritto Maurizio Maggiani, non ci sono scuse: «C’è sempre un uomo, o un’impresa di uomini, ovunque e in ogni tempo, che non rinuncia al suo gesto di bella dignità. La dignità e la bellezza che riparano dalla rassegnazione, dal cinismo, dalla sconfitta definitiva». I nostri gesti individuali e collettivi devono ritrovare quest’epica, questa vastità d’intenti senza la quale c’è solo rassegnazione o cinismo.

E Pier Paolo Pasolini, in una delle sue ultime poesie scriveva: “L’occhio guarda è l’unico che può accorgersi della bellezza…la bellezza si vede perché è viva, e quindi reale. Diciamo meglio, che può capitar di vederla. Dipende da dove si svela. Il problema è avere gli occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. forse perché non credono che la bellezza esista. Ma, sul deserto delle nostre strade lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio”. La bellezza passa anche nel nostro tempo guardiamola, apriamo gli occhi, valorizziamola, attacchiamoci ad essa. Bisogna che i nostri occhi vedano la bellezza e la dignità che ogni giorno si offre a noi, e occorre che le nostre mani inizino a costruire, a ricostruire.

È questo il tempo, infatti, di chi vuol costruire, anzi, ricostruire. Il futuro o sarà contenuto nei nostri gesti (dobbiamo avere il coraggio di ricominciare a parlare dell’economia dei gesti, i gesti che fanno le cose, non il denaro) o futuro non ci sarà e se ci sarà, sarà buio. Gesti personali e gesti associativi che sappiano cogliere tutta la portata della sfida che il tempo che viviamo ci propone; con coraggio. Coscienti che il gratuito non è ciò che è gratis, non è ciò che non ha un costo, ma ciò che non ha prezzo. Il gratuito è pensare, fare, realizzare un gesto o un’opera perché è buona in sé, perché è bella in sé, senza tornaconto previsto, senza contabilità preventiva. Perciò non ci sarà altra prospettiva del deserto risultato delle predazioni, se coscientemente e per scelta, non sapremo anteporre questo valore in sé all’utile o all’interesse che se ne può ricavare. Insomma, se il Censis ci ha azzeccato, se la disponibilità all’altro è sentimento ancora vivo, non possiamo che ripartire da noi, cioè da soggetti che con coraggio, pazienza e tenacia, costruiscano, ricostruiscano, socialità, comunità, esperienze di condivisione. Incazzandoci, anche, sino a che la politica capirà.

Del resto questo è uno specifico invito di Papa Francesco. “Un buon cattolico si immischia in politica – ci ha detto il Papa – offrendo il meglio di sè, perchè il governante possa governare. I (…) Nessuno di noi può dire: «Ma io non c’entro in questo, loro governano…». No, no, io sono responsabile del loro governo e devo fare il meglio perchè loro governino bene e devo fare il meglio partecipando nella politica come io posso. Io non posso lavarmi le mani, eh? Tutti dobbiamo dare qualcosa!”. “Forse” – dice ancora il Papa – “il governante, sì, è un peccatore, come Davide lo era, ma io devo collaborare con la mia opinione, con la mia parola, anche con la mia correzione”. E rivolto ai cattolici ha concluso: “Un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare”. Se nessuno deve disinteressarsi della politica, un “buon cattolico” deve addirittura “immischiarsi”, interessarsi, mettersi in mezzo, perché nessuno più di lui dovrebbe avere più a cuore il bene di tutti, il bene del popolo. Mettersi in mezzo, dare qualcosa, rompere le scatole, proporre, dar conto delle proprie ragioni, in un dialogo vero.

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