Ieri, commentando l’inizio a Ginevra delle trattative fra il suo Paese e il gruppo composto dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) più la Germania, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha ottimisticamente dichiarato che si potrebbe arrivare ad un accordo anche entro una settimana. Non sarà vero, ma resta comunque un sintomo dell’ostentata volontà comune delle parti in causa di giungere a un accordo in tempi ragionevolmente brevi.
Dalla caduta nel 1979 del regime dello Scià Reza Pahlevi e quindi dall’instaurazione della Repubblica islamica, l’Iran è stretto d’assedio dagli Usa, da Israele e in vario modo dal resto dell’Occidente. Questo assedio che dura dunque da oltre trent’anni – e che tra il 1980 e il 1988 sfociò anche nella guerra tanto sanguinosa quanto inconcludente che l’Iraq di Saddam Hussein (allora gradito a Washington) condusse contro l’Iran per conto degli Stati Uniti – non ha mai inferto alcun colpo decisivo contro al regime allora sorto a Teheran sotto la guida dell’ayatollah Rurollah Khomeini. Morto il suo fondatore nel 1989, il regime continua fino ad oggi, con la sua tipica democrazia limitata in forza della quale correnti politiche diverse si confrontano abbastanza liberamente all’interno tuttavia di un orizzonte definito da una specie di senato ecclesiastico che si rinnova per cooptazione. A oltre trent’anni dalla sua instaurazione, e visto che tutti i grandi sforzi compiuti per farlo cadere sono falliti, non sarebbe forse il caso di risolvere il problema dei rapporti con l’Iran khomeinista puntando sulla diplomazia più che sulle armi e sugli intrighi dei servizi segreti? Dal clima in cui si è giunti al negoziato apertosi ieri a Ginevra viene da pensare che finalmente anche nelle cancellerie delle grandi potenze (come si sarebbe detto un tempo) ci si stia orientando verso tale prospettiva di buon senso. Per procedere su questa via prima però occorre rimuovere un ostacolo che è una tigre di carta, per anni tuttavia gonfiata ad arte fino a farla sembrare un macigno: si tratta del cosiddetto “nucleare iraniano”. Un Paese con il grado di sviluppo e con il grado di autonomia tecnico-scientifica dell’Iran non è minimamente in grado di produrre ordigni nucleari che possano venire lanciati contro un eventuale nemico con qualche probabilità di dirigersi su un bersaglio e infine di raggiungerlo. Al massimo può fabbricare delle mine nucleari da mettere su un traliccio e far esplodere in un poligono; questo non perché non vorrebbe fare di più, ma perché non è in grado di fare di più. E se anche, direi per sortilegio, riuscisse a costruirsi un missile a testata nucleare, il controllo americano delle reti telematiche alla scala planetaria è così minuzioso ed assoluto che il suddetto missile e la suddetta testata nucleare verrebbero eliminate prima del loro avvio e rispettivamente del loro innesco. Poi per opposti motivi sia al regime iraniano che agli Usa e a Israele conviene far credere alle proprie rispettive opinioni pubbliche interne che Teheran potrebbe diventare una vera potenza nucleare, ma questa è un’altra questione, che non ha nulla a che fare con la realtà delle cose.
Ci si deve dunque augurare che a Ginevra i negoziatori trovino un modo dignitoso per sgonfiare quella tigre di carta salvando la faccia di tutte le parti in causa; e che poi ci si possa mettere al lavoro per togliere l’assedio, e quindi conseguentemente per far venir meno il clima interno di stato d’assedio di un Paese che –con i suoi quasi 75 milioni di abitanti, un’economia di un certo sviluppo e un enorme territorio (un milione e 648.200 chilometri quadri) – costituisce l’ineludibile chiave di volta di qualsiasi serio progetto di stabilizzazione del Medio Oriente.