Da giorni a Soweto si balla per salutare Madiba e la danza andrà avanti. Ci sarà ancora tempo per dire addio all’uomo che ha ricostruito il Sudafrica, che ha restituito dignità ai neri del Paese. Le parole e il canto non bastano, bisogna ballare per poter dire tutto quello che si sente. La morte di Mandela dà l’occasione di tornare a una delle transizioni politiche più sorprendenti della fine del XX secolo, da cui è possibile imparare molto su ciò che mantiene in piedi una democrazia.
Il cambiamento sociale è iniziato, in larga misura, dal cambiamento di una persona. Mandela divenne il prigioniero 466/64 dell’Isola di Robben quando aveva 44 anni. Il Vescovo Desmond Tutu, suo amico, ha spiegato che allora era il comandante in capo del Congresso nazionale africano, un partito che non si faceva problemi a usare la violenza. Quando iniziò i suoi 27 anni di prigionia, Mandela era molto arrabbiato. Per gran parte della prigionia ha trascorso 23 ore al giorno da solo. Ed è lì che è avvenuto lo strano miracolo: la sofferenza che tanto avvilisce, nel suo caso ha portato giovamento.
Nella convivenza con i suoi carcerieri bianchi, Madiba ha compreso il valore del tendere la mano all’avversario. C’è un parallelismo tra la sua lotta e quella portata avanti da molti dei dissidenti dell’Europa dell’Est contro la dittatura comunista. Quando il secolo più ideologico della storia stava finendo, apparvero uomini capaci di guardare negli occhi i loro oppressori. Andando oltre il fossato aperto dall’ingiustizia, riconoscevano che l’altro era un altro io.
Alla fine degli anni ‘80, il Sudafrica era diventato un campo di battaglia e sembrava impossibile evitare una guerra civile. Quattro milioni di bianchi avevano tenuti sottomessi 25 milioni di neri per decenni. In questo contesto, il Presidente Pieter Willem Botha decise di inviare il ministro della Giustizia, Kobie Coetsee, a parlare con Mandela in carcere. L’incontro fu cordiale e seguirono poi molte riunioni con rappresentanti dell’intelligence e dell’esercito. Alcuni di loro erano personaggi sinistri, ma ciò non impedì a colui che divenne in seguito Nobel per la pace di discutere con loro.
Questo modo di far politica, che nasceva al di là della politica, è quello che Mandela ha instaurato quando è arrivato alla Presidenza. Dal 1994 iniziarono i lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione che produsse qualcosa di più di un processo di amnistia. Il Sudafrica rifondò la sua comunità politica: fino a quel momento la stragrande maggioranza dei bianchi riteneva giustificato il regime dell’Apartheid; i neri, da parte loro, non avevano ragioni per aspettare un cambiamento repentino. I meccanismi procedurali classici della democrazia erano insufficienti a risolvere il problema, non c’era possibilità di stabilire un gioco adeguato tra maggioranze e minoranze che potesse rimarginare la ferita.
La genialità di Mandela fu quella di cambiare il terreno di gioco, entrando pienamente nella metapolitica. Ha potenziato l’incontro umano e il riconoscimento reciproco attraverso il perdono. Il fattore religioso è stato molto presente nei lavori della Commissione e non è mai stato nascosto che si ispirasse al cristianesimo. I suoi lavori vennero aperti con una preghiera, i responsabili di gravi ingiustizie venivano chiamati a confessare e riconoscere che quel che avevano fatto era qualcosa di sbagliato: non contro la legge, ma contro il bene. Allo stesso modo si invitavano le vittime a perdonare e la cosa ha funzionato.
Questo non vuol dire che il Sudafrica abbiamo risolto tutti i suoi problemi. Quando si stanno per celebrare i 20 anni dall’inizio della presidenza di Mandela, il Paese vive ancora gravi disuguaglianze (un bianco guadagna sette volte più di un nero) e il livello di violenza è altissimo, ma esiste ancora una vita comune che sembrava impossibile.
Non occorre l’Apartheid per capire che la democrazia, se si concepisce solamente come un sistema deliberativo, è incapace di sostenersi. Madiba è stato l’esempio di tutto quello che può un uomo libero e ha lasciato indicato un cammino: non c’è sistema costituzionale o legislativo che mantenga uniti se non c’è il riconoscimento del valore dell’altro. Non c’è democrazia senza verità.