Lo shock per i terribili fatti di prostituzione giovanile recentemente emersi (ne ho parlato nell’editoriale del 12 novembre) ha prodotto una numerosa serie di riflessioni sulle difficoltà dell’educazione di questi tempi o, meglio, sui tragici esiti della sua inadeguatezza o addirittura assenza. In particolare molti hanno riflettuto (come Giuseppe Frangi su queste stesse pagine il 16 novembre) sulla caduta verticale della figura paterna. Di assenza del padre, di confusione tra ruolo paterno e ruolo amicale, di femminilizzazione del maschio nella famiglia, di eliminazione della auctoritas (che indica ciò che fa crescere) del pater si parla – fortunatamente – da alcuni anni. Parecchie analisi importanti sono state fatte e qualche flebile indizio di cambiamento di direzione si intravvede. 

Certo indagini di carattere psicologico o sociologico (ad esempio sul terremoto del Sessantotto col suo carico distruttivo di ogni autorità) sono importanti e necessarie, tuttavia credo che occorra scavare ancora più a fondo. Una pista feconda per tale scavo l’ho trovata nelle parole di un inno composto dalle monache trappiste di Vitorchiano. Immaginiamoci innanzitutto il contesto da cui il canto emerge. Quelle monache, di prima mattina, si ritrovano in preghiera in attesa che sorga il nuovo giorno. Cosa vedono? Vedono che dal buio della notte in cui niente si percepisce – emblema del nulla – tutta la realtà, persone e cose, riprende, a causa della luce che ritorna, la propria individualità, riassume il proprio aspetto, ricomincia il proprio cammino. Insomma, è come se tutto nascesse di nuovo.

Esattamente in questo momento si pone la scoperta radicale: questa nuova nascita implica una paternità. Non si darebbe adeguata ragione del fatto che le mura del monastero, l’orto, la consorella, io, il pavimento che calpesto ci siamo, siamo ancora lì, se non riconoscendo una formidabile forza generativa di tutto questo (che infatti, come ci mettevano in guardia i nostri vecchi, sarebbe potuto sprofondare nel nulla notturno). Ora, questa forza generativa della realtà che ogni mattino rinasce è necessariamente un padre. Infatti l’inno dice così: «Immersi nel grande mistero che anima tutto il creato, cantiamo nel giorno che nasce l’immenso splendore del Padre». Immenso splendore perché quel Padre è la polla sorgiva di ogni cosa, stabilisce la luminosa ed indiscutibile differenza tra il nulla e il fatto che quello che c’è c’è. 

È a questa paternità originale e totalizzante che ogni padre umano partecipa. Da un lato ricordando al figlio la sua radicale dipendenza da altro da sé, in rapporto drammatico col quale soltanto potrà costituirsi come personalità indipendente. Dall’altro ricordando a se stesso di non essere l’ultimo luogo della paternità, ma rimando effimero e necessario al «grande mistero» di una paternità molto più splendida e definitiva. Per questo Tertulliano diceva di Dio: «Tam pater nemo», nessuno è così tanto padre. E proprio perché riconosce questa eccedente paternità, che abbraccia lui e il figlio, il padre umano può dignitosamente affrontare la sua imprevedibile e straordinaria avventura.