Non approfondiremo mai abbastanza l’esperienza natalizia dei pastori di Betlemme, le prime persone “evangelizzate” della storia del cristianesimo. L’annuncio dell’avvenimento di Dio fatto uomo li ha raggiunti nella notte, nella fatica, nel freddo di una vita quotidiana, forse impegnata solo a sopravvivere. Penso sempre a loro quando, in Paesi come la Bolivia, l’Etiopia, il Vietnam, li vedo nei loro discendenti della grande, inestinguibile famiglia dei poveri. Ora sappiamo che la vita umana ferve di attesa di quell’annuncio, di quel Vangelo, di quell’evento: che il Figlio di Dio sia nato per noi, anzi “a noi”, come uno della nostra famiglia, come uno della nostra condizione di umanità: “Oggi vi è nato un Salvatore che è il Cristo Signore!” (Lc 2,11).
Quello che più mi impressiona nell’episodio dei pastori di Betlemme, non è tanto il meraviglioso – angeli, gloria, luce, annuncio e canti – che è d’altronde subito scomparso, forse per sempre, dalla loro esperienza, ma la loro immediata reazione comunitaria alla provocazione di quell’annuncio. I pastori sono gente solitaria; raramente lavorano insieme. Ognuno si occupa delle sue bestie, e mantenersi a debita distanza gli uni dagli altri fa parte del loro compito, se vogliono che ci sia abbastanza erba per gli animali che custodiscono. Che l’annuncio dell’angelo li abbia raggiunti in molti non stupisce, venendo dall’alto con potenza di luce e di voce. Ma ecco che allo sparire degli angeli, rifagocitati dalla notte, subito i pastori si ritrovano uniti in un progetto comune, in un comune desiderio, in un cammino deciso e percorso assieme: “Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere” (Lc 2,15). Al coro degli angeli fa eco il coro dei pastori, come se la comunione e l’armonia del Cielo si rispecchiassero sulla terra.
L’avvenimento di Cristo, attirandoci a sé, ci attira gli uni verso gli altri, crea comunione di desiderio e di intenzione, che poi si trasformerà in comunione di esperienza, di gioia, di testimonianza. È questo lo straordinario. È questa possibilità inattesa di unità, suscitata da un’attrazione più potente di ogni interesse e affaccendamento individuali, il messaggio del Natale che ridà speranza al mondo, a tutti, indistintamente. L’annuncio è fatto ai pastori, ma poteva essere fatto agli artigiani, ai bambini, alle donne che vanno ad attingere al pozzo, ai soldati romani, ai pubblicani, ai farisei, o ai politici.
Perché Cristo è il Salvatore che nasce per tutti, che nasce a tutti. Forse i pastori erano semplicemente uomini e donne più vicini di qualunque altro alla loro, alla nostra, umanità elementare, a quello che ogni uomo è là dove il cuore non è appannato da altre priorità che il desiderio della felicità, dell’amore, della pace, della vita.
Ma Cristo saprà passare attraverso ogni corazza e maschera che l’uomo cerca di frapporre fra il suo cuore e il suo Destino. Lo ha promesso solennemente: “Attirerò tutti a me!” (Gv 12,32).
E quei “tutti”, l’immensa moltitudine umana, anche quella di oggi con i suoi problemi, le sue guerre, le sue miserie, le sue crisi, le sue sfide, le sue conquiste, le sue speranze, si scoprirà, come i pastori di Betlemme, d’improvviso unita dal desiderio di corrispondere al Vangelo, cioè all’attrattiva di quell’Avvenimento. E non è un sogno, né una pretesa, questa umanità unita verso l’incontro con Gesù, perché anche l’attrattiva fa parte, ed è dono, dell’Avvenimento. È oggi, ora, che Cristo stesso attira tutti, insieme, a Sé!