L’altro ieri, domenica 1° dicembre, la definizione di famiglia come matrimonio tra un uomo e una donna è stata introdotta nella Carta costituzionale della Croazia con referendum popolare. La maggioranza è stata nettissima: ha votato “sì” il 65,87 per cento degli elettori che si sono recati alle urne (quasi il 40 per cento degli aventi diritto). Il “no” ha prevalso soltanto in Istria. I croati all’estero hanno votato “sì” nella misura del 73,33 per cento. Se la notizia fosse stata di segno opposto l’avremmo trovata sulle prime pagine di larga parte della stampa europea. Dal momento invece che il referendum croato dà un forte segnale in controtendenza rispetto al “politically correct” predominante nei maggiori Paesi dell’Europa occidentale, la vicenda viene o ignorata o relegata in poco spazio e in pagine interne. E comunque quando la si commenta lo si fa soltanto negativamente. D’altra parte è ciò che sta accadendo nella stessa Croazia, dove in questi giorni buona parte della stampa non esita a scagliarsi contro l’esito del referendum. Qualche giornale è arrivato addirittura a scrivere che l’industria turistica croata ne farà le spese poiché gli omosessuali stranieri non verranno più a passare le loro vacanze sulle spiagge dell’Istria e della Dalmazia.

Oltre ad avere un valore in sé, la vicenda è significativa anche per motivi di ordine più generale. Incurante del grande successo ottenuto nello scorso maggio dai promotori del referendum, che in due sole settimane aveva raccolto circa 780mila firme di adesione (pari a più del 20 per cento del corpo elettorale), il governo “socialdemocratico”, ovvero post-comunista, del premier Milanovic aveva fatto di tutto per impedirlo. Prima ha cercato senza successo di modificare la Costituzione laddove non prevede alcun quorum per la validità dei referendum, una norma che era sta introdotta ad hoc per non far fallire il referendum per l’entrata della Croazia nell’Unione Europea. Poi ha chiesto un parere a Bruxelles contando su una risposta utile per bloccare l’iniziativa referendaria, ma la Commissione Europea non ha potuto fare altro se non rispondere che il diritto di famiglia è una competenza esclusiva degli Stati membri. Infine ha cercato di far passare con legge ordinaria la trasformazione del referendum in questione da deliberativo a consultivo, ma la Corte costituzionale si è opposta dal momento che la Costituzione della Croazia sancisce il valore immediatamente esecutivo dell’esito dei referendum popolari. E anche adesso che al referendum hanno vinto i “sì” a larga maggioranza, il premier Milanovic – senza avvertire il minimo contrasto fra il rispetto democratico della volontà popolare e quanto intende fare –, dopo aver definito il giorno del referendum “una triste giornata” ha annunciato che presenterà al più presto in Parlamento un progetto di legge sull’unione civile tra omosessuali che, salvo il diritto di adozione, verrà equiparata in tutto e per tutto al matrimonio. 

Al di là di tale suo atteggiamento è evidente lo scollamento che ormai si registra in Croazia fra il comune sentire del popolo da un lato, e dall’altro l’attuale governo post-comunista nonché quella buona parte della stampa croata che è di analoga ispirazione: uno scollamento che non potrà non avere conseguenze anche sul piano politico.

Dopo l’ingente sviluppo in Francia del  movimento “Manif pour tous” e delle iniziative dei “veilleurs” (le sentinelle), che hanno trovato riscontro anche in Italia e altrove, l’esito del referendum croato dello scorso 1° dicembre conferma che sotto la superficie della società civile europea scorrono, come fiumi carsici, convinzioni ed esperienze umane di valore pronte ad emergere se soltanto se ne dà loro adeguata occasione. Negli ambienti che dovrebbero essere lontani dall’ordine costituito tardo-giacobino oggi predominante in Europa, sarebbe il caso che tanto i chierici della cultura ufficiale quanto l’establishment politico e non solo − oggi sempre così cauti e così preoccupati di non calpestare le aiuole − se ne accorgessero e ne tenessero conto.