Ieri la notizia dell’attentato a Volgograd – una kamikaze si è fatta esplodere alla stazione, causando numerose vittime (16 i morti, per ora, e una quarantina di feriti) – è rimbalzata attutita in una Mosca immersa nel clima tipico della vigilia delle grandi feste, fatto di traffico caotico, di gente indaffarata negli acquisti per la festa di Capodanno, desiderosa solo di godersi un po’ di tranquillità nelle ferie ormai alle porte. Le tante notizie di attentati in giro per il mondo, purtroppo, ci rendono cinici: ascolti il conto delle vittime, ti stringi nelle spalle pensando che, in fondo, la provincia è lontana, e vai avanti. A questo contribuisce il profilo operativo e “rassicurante” dato alla notizia dai mass media: la “pista daghestana” del separatismo islamico è chiara, le autorità stanno analizzando le misure di sicurezza da prendere. Come a dire: il problema è circoscritto, si può stare tranquilli.
Alla pista daghestana fanno indubbiamente pensare vari elementi della strage di ieri: la kamikaze, Oksana Aslanova, una ragazza di 26 anni, veniva appunto dal Daghestan, regione in cui si concentrano gli jihadisti russi, e sarebbe stata sposata con due di loro, entrambi uccisi dalle forze di sicurezza russe. Come pure, sarebbe stata in stretti rapporti con la donna daghestana che il 21 ottobre scorso si era fatta esplodere su un autobus, sempre a Volgograd, causando 7 morti e 20 feriti.
Tutti gli osservatori, sia in Russia che all’estero, hanno collegato questa escalation di violenza alle ormai imminenti Olimpiadi invernali di Soci, a cui la Russia sta preparandosi da anni e su cui ha investito un ingente capitale di energie e di finanze, facendone un punto di prestigio internazionale. Oltre all’imponente piano edilizio di cui è stata fatta oggetto la regione, il governo russo sta cercando in vari modi, negli ultimi tempi, di migliorare il proprio look per ottenere il massimo dei consensi e della partecipazione da tutto il mondo (amnistiando tra l’altro vari detenuti politici e concedendo la grazia all’avversario storico di Putin, l’ex oligarca Michail Chodorkovskij). Non è un caso, di contro, che un leader dei separatisti islamici, un «signore della guerra» ceceno, Doku Umarov, in un video diffuso nel luglio scorso esortasse i militanti a utilizzare «la massima forza» affinché il presidente non possa sfruttare la ribalta internazionale delle Olimpiadi invernali.
In realtà, la strage di ieri è la punta di un iceberg che si profila sempre più minaccioso all’orizzonte, e che non si sconfigge semplicemente con una guerra armata contro il separatismo islamico.
Solo una settimana fa le autorità russe hanno ammesso un notevole incremento dei casi di xenofobia e intolleranza, e il Centro Sova per i diritti umani ha parlato per il 2013 di 19 omicidi, 168 casi di pestaggio e 9 intimidazioni a sfondo razzista, in 32 regioni russe (sebbene gli episodi siano concentrati a Mosca e provincia e a Pietroburgo, dove c’è la maggior emigrazione dal Caucaso e dalle repubbliche asiatiche ex sovietiche). In ottobre, nel quartiere moscovita di Birjulevo si sono svolti veri e propri pogrom contro la popolazione non russa, nel corso dei quali sono state fermate oltre 400 persone. L’allarme estremismo sta aumentando rapidamente anche in regioni che fino a poco tempo fa erano considerate un felice esperimento di “islam moderato”, come il Tatarstan: qui nel corso del 2013 sono stati registrati ben sette episodi di incendi dolosi di chiese cristiane, mentre nel 2012 non si era verificato neppure un caso simile. Lo stesso presidente Rustam Minnichanov ha espresso preoccupazione e ha promesso di seguire personalmente le inchieste aperte al riguardo.
È evidente che per la Russia si ripropone come un punto nevralgico per il futuro la sfida della possibilità di una convivenza pacifica di etnie, culture e religioni diverse. È una battaglia culturale, civile, in cui le religioni sono chiamate a svolgere un ruolo di primaria importanza, creando vie di riconciliazione e di incontro e respingendo ogni possibile tentazione di fondamentalismo.