La Spagna è ancora sconvolta dalle conseguenze della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo giunta a ottobre contro la “dottrina Parot”. Proseguono le uscite dal carcere dei terroristi dell’Eta che non mostrano pentimento o di persone condannate per “gravi delitti” come omicidio e stupro. Persone che, stando a quello che dicono i criminologi, continuano a essere una minaccia per la società. Il sistema franchista di calcolo della pena permetteva di non scontare integralmente la condanna e i governi socialisti non hanno cambiato questa eredità della dittatura. La riforma è arrivata tardi, nel 2003, e nel 2006 i giudici hanno trovato una formula per frenare le scarcerazioni che ora Strasburgo ha annullato quando si applica in forma retroattiva. Il risultato è che coloro che sono stati condannati a 100 anni di carcere tornano in libertà relativamente presto.



L’opinione pubblica appare compatta: una percentuale rilevante (tra il 60% e l’80%) degli spagnoli è contraria alla decisione della Corte europea. Le scarcerazioni dei membri dell’Eta sono state accompagnate da festeggiamenti. Le persone liberate vengono accolte come eroi nelle proprie città. Il gruppo terrorista, sconfitto dalle forze dell’ordine, sta cercando di approfittare della situazione per poter dire di aver ottenuto una vittoria.



Quel che sta facendo l’Eta è indegno, ma ce lo si aspettava. Forse dà maggior scandalo la messa in libertà di quanti sono stati condannati per delitti comuni. È come se ci si fosse improvvisamente accorti che il reinserimento non è un processo automatico. Voci da destra e sinistra si levano per rivendicare realismo nello Stato di diritto e si arriva persino a teorizzare che non bisogna mettere in libertà chi non è “guarito”.

Nel frattempo, in Parlamento si sta discutendo una riforma del Codice penale che sembra raccogliere questa richiesta di realismo attraverso “l’ergastolo rivedibile”. Se verrà approvata, i condannati per reati gravi non usciranno di prigione se non dimostreranno di essere riabilitati.



Il dibattito tra i giuristi è molto acceso. Alcuni dicono che questa riforma è contro la Costituzione, che sancisce il principio del reinserimento. E certamente bisogna stare attenti che la correzione del “buonismo penale” non comporti la violazione di questo principio. Chi è in carcere ha diritto di rifarsi una vita. Le parole di Francesco, l’uomo che ama i prigionieri, sono una buona indicazione sul modo di guardare alle carceri. «Perché lui è lì e non io. […] Perché lui è caduto e non sono caduto io? […] Per me questo è un mistero […] che mi fa avvicinare ai carcerati».

Più che il dibattito giuridico, l’aspetto interessante del caso delle scarcerazioni è che ha messo la società spagnola di fronte a qualcosa che a noi moderni costa tanto accettare: il carattere irriducibile del male. Usando vecchie teorie abbiamo creduto che il delitto fosse una patologia della mente o della società. La nostra psichiatria spicciola, che poco ha a che vedere con quella scientifica, ci porta a pensare che l’origine del male possa essere analizzata, processata e neutralizzata se si agisce con una certa abilità nella profondità della mente o a livello sociologico.

Forse questa è l’ultima illusione che ci ha lasciato il mito del progresso, ma il realismo ci obbliga a riconoscere che questo punto oscuro resta indecifrabile nelle persone che hanno commesso i crimini più gravi e, in misura minore, in tutti noi. L’auto-redenzione non esiste: occorre sempre un aiuto dall’esterno.