Quelle grandi potenze e quei grandi poteri, tanto esterni quanto interni al mondo arabo, che avevano sin qui puntato a rovesciare con la forza il regime siriano – senza preoccupazione per tutto il sangue (non loro) e per tutte le lacrime (altrui) che per questo si sarebbero dovute versare – adesso stanno forse qua e là rendendosi conto che sarebbe meglio cambiare strada?
Da alcune notizie che vengono fatte circolare e da alcuni episodi che accadono sembrerebbe di sì. Ieri Al Arabiya, una delle due maggiori Tv satellitari arabe, ha dato inaspettatamente uno spazio di rilievo a dichiarazioni di Wi’am Wahab, ex-ministro libanese pro-siriano, secondo cui Bashar al-Assad potrebbe restare in carica fino al 2021 e poi rimanere comunque sulla scena con un ruolo di “guida” del regime siriano. Il dato sorprendente non è tanto che Wahab abbia detto queste cose, ma che Al Arabiya le abbia riprese, e non solo nei suoi programmi in arabo ma anche in quelli in inglese. E ciò è tanto più interessante se si considera che il personaggio è il padre della proposta – interessantissima anche per l’Italia – di un mercato comune tra Libano, Siria e Iraq: ovvero della riapertura di quel naturale ponte economico tra Mediterraneo e Golfo (e quindi Oceano Indiano) che al termine della prima guerra mondiale la Gran Bretagna e la Francia, le due grandi potenze atlantiche dell’epoca, non a caso si precipitarono a chiudere. Nello stesso giorno Asharq Al-Awsat, ben informato giornale in lingua araba edito a Londra, ha scritto di aver ricevuto documenti nei quali si delinea un piano per una pacifica transizione in Siria dal regime attuale a qualcosa di più democratico. Punto chiave del piano sarebbe la creazione di un consiglio nazionale composto da 140 membri di cui 102 eletti dal popolo sotto l’egida delle Nazioni Unite e 38 autorevoli personalità religiose e rispettivamente rappresentanti del regime di Bashar al-Assad o dell’opposizione.
Fatto sta che a 22 mesi dall’inizio della guerra civile il regime non dà affatto segni di crollo imminente potendo contare non solo sul sostegno diplomatico e militare della Russia che ha ufficialmente annunciato di stare consegnando armamenti al governo di Damasco, ma anche sul consenso di una parte della popolazione siriana. Un consenso difficile da misurare con precisione, ma comunque non irrilevante, che proviene da quei molti i quali pensano, non senza fondati motivi, che con la vittoria delle forze oggi in campo contro il regime la Siria cadrebbe dalla padella nella brace; e in una brace ben peggiore dell’attuale padella. 

Con riguardo al problema del superamento di regimi dittatoriali divenuti ad ogni modo anacronistici la storia recente offre due opposti esempi sui quali è il caso di meditare attentamente: uno è quello di Saddam Hussein in Iraq e l’altro è quello di Augusto Pinochet in Cile. Nel primo caso per stanare un vecchio lupo peraltro ormai spennacchiato si è bruciata un’intera foresta distruggendo una delle economie più vitali del Medio Oriente e provocando un vuoto politico ai cui effetti distruttivi a distanza di anni non si è ancora riusciti a porre definitivo rimedio. Nel secondo nell’arco di due anni, tra il 1988 e il 1990, si è riusciti a ripristinare la democrazia e a mettere da parte il dittatore senza sconvolgere il Cile e anzi riuscendo anche a conservare tutto ciò che di buono era comunque stato fatto durante il regime di Pinochet. Grazie a questa abile e non catastrofica transizione il Cile è oggi uno dei Paesi più prosperi dell’America Latina. Possiamo augurarci che nel caso della Siria si guardi al Cile invece che all’Iraq? E, diciamolo ancora una volta, se c’è un Paese europeo che ha anche tutto l’interesse a favorire una soluzione non catastrofica della crisi siriana, e non è privo dei mezzi per farlo, questo è l’Italia.