Dopo una settimana dalle dimissioni di Benedetto XVI, uno dei cardinali spagnoli che parteciperà al prossimo conclave ha ammesso: “I primi due giorni ero sotto choc, non ci credevo”. E non è stato l’unico a pensarla così. Si è trattato di uno choc generalizzato. Le frasi in latino pronunciate dal Papa tedesco hanno provocato per alcuni istanti una specie di “tregua di Dio” nel XXI secolo. Tutto sembrava piccolo, meschino, irrilevante di fronte all’importanza di quel gesto. Dopo sono cominciate a sorgere rapidamente le varie interpretazioni. Non possiamo farne a meno, non possiamo rinunciare, anche se in maniera “balbuziente”, ad avere una chiara ricostruzione della vicenda. La rinuncia del Papa si è trasformata in realtà nel ritratto del nostro Paese. Un gesto di puro cristianesimo è servito per svelare i sentimenti e le chiavi culturali più diffuse. E cosa ha detto la “cattolica Spagna”? Le risposte sono state molto diverse. Siamo di fronte a una società evidentemente pluralista. Se diamo per certo che l’opinione diffusa dai media sia lo specchio dell’opinione pubblica, possiamo supporre che la maggior parte delle reazioni è stata rispettosa, persino elogiativa. I più critici hanno presentato il Papa come una vittima di una Curia indomabile. Quasi tutti come un intellettuale. E poi c’è stata una minoranza che ha voluto essere più papista del Papa stesso, e si è infuriata, parlando di tradimento o di resa. C’è anche chi ha detto delle autentiche sciocchezze. Le interpretazioni positive sono le più interessanti. Dal mondo laico c’è chi ha sottolineato la coerenza del Papa come pensatore. Non è cosa da poco in una Spagna suddivisa in blocchi. L’argomento che va per la maggiore tra chi professava la sua ammirazione per il Papa è stato il coraggio e l’umiltà. Non è cosa da poco in un contesto scettico. Ma è sorprendente il fatto che in Spagna, che almeno culturalmente ha profonde radici cattoliche sia nella cerchia dei credenti, sia in quella dei non credenti, entusiasti e critici, domini la chiave morale o etica. Alcuni ipotizzano che c’entri la fede, non come ispirazione ultima, ma come fattore decisivo, determinante. Francisco Basterra su El País ,per esempio, scrive che è stata data “una lieve speranza a chi crede in Dio, ma non nella Chiesa”. Gabriel Albiac ha ricordato invece il drammatico dialogo di Auschwitz. È una buona strada, ma non si tratta solo di coraggio o di grandi virtù. Questo sarebbe importante, ma non sufficiente a provocare uno choc. Bisogna cercare la radice dell’esperienza umana che ha reso possibile un gesto del genere. Si tratta, pertanto, di fede, di Dio nella storia. E questo è quello che dovrebbe avere importanza per una cultura cattolica.



Benedetto XVI ci ha invitato a usare, nel corso di questi otto anni circa, la ragione. E in questo caso un uso adeguato della ragione ci invita a riconoscere che Dio continua a essere presente nella storia. Nella sua memorabile visita a Barcellona, davanti all’imponenza della Sagrada Familia, ha invitato una Spagna che crede già di sapere cos’è il cattolicesimo a guardare Gaudí. L’architetto che “realizzò ciò che oggi è uno dei compiti più importanti: superare la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza”. È esattamente quello che ha fatto Benedetto. Con la bellezza del suo gesto ha segnalato la Bellezza di Cristo, che non è né dottrina, né morale, ma una Persona presente. 

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