E così siamo arrivati alla vigilia dei risultati. Stasera sapremo chi governerà il nostro paese e, per molti, la propria regione. A dire il vero non è detto che tutto risulti chiaro; c’è il sospetto che l’esito delle urne, invece che chiarezza, apporti ulteriori elementi di confusione ad una competizione elettorale che di confusione ne ha già ingenerata parecchia.
In ogni caso, anche domani ci alzeremo, saluteremo i nostri cari, prenderemo un mezzo per andare a lavorare, incontreremo colleghi con cui commenteremo il voto, guarderemo i giornali, ci chiederemo se qualcosa sia veramente cambiato in meglio o in peggio e poi dovremo riprendere la normalità della routine. Ci accorgeremo, in definitiva, che l’utilità della tappa elettorale dipende meno dai risultati che dal consolidarsi della propria personale consistenza di fronte ai casi della vita, uno dei quali è stato, appunto, la vicenda del voto.
Vorrei spiegarmi meglio utilizzando le parole di due poeti. Passata l’eccitazione elettorale, l’esistenza riprende il suo ritmo ed è in questa apparente banalità quotidiana – che sarà certo influenzata dai nuovi o vecchi contorni della scena politica – che devo continuare a vivere e costruire. Come il monaco iconografo descritto da Rilke all’inizio del suo Libro d’ore. Lo immagino mentre si sveglia nella sua cella di uno sperduto monastero della steppa russa, lo immagino un po’ atterrito dalla sproporzione tra quella vastità e il lavoro cui il giorno lo chiama (come uno di noi smarrito tra la complicazione ingovernabile delle alchimie politiche e la possibilità di incidervi col proprio voto di ieri). Al monaco, infatti, “i sensi tremano”, come a chi sta per cadere, come a chi ha la tentazione di mollare tutto e di fregarsene, come chi è deluso per un successo non arrivato o troppo contento per un risultato che intimamente non lo convince del tutto. Ma il monaco dice a se stesso: “Sento di farcela / e afferro il giorno, la sua molle creta”. Quel monaco è responsabile di sé e del suo ambito, non spera più di tanto nell’alternarsi degli schieramenti, non è allettato da promesse stratosferiche, non è definito dalla mutevolezza degli assetti circostanti. Il suo “sguardo è maturo” ed in forza di tale maturità ha intelligenza ed energia per lavorare, per usare di tutto in vista di una costruzione, tanto che “ogni cosa cede al suo volere: è una sposa”.
L’altra poesia è di Hopkins. Riporto solo l’inizio di uno straordinario sonetto, che ben sia attaglia allo stato d’animo di chi fosse gravemente deluso per la sconfitta subita dalla parte da lui sostenuta. Certamente la profondità della poesia va al di là di una contingenza tutto sommato effimera, ma la tentazione di disperare a volte ci viene per cause minute e per altri insignificanti.
Ecco, dunque, la posizione virile e responsabile di Hopkins: “No, Disperazione, conforto della carogna, non farò banchetto di te; / né scioglierò – per fiacchi che siano – questi ultimi fili d’uomo / in me o, stanchissimo, griderò ‘più non posso’. Posso; / posso qualcosa, spero, desidero l’arrivo del giorno, non scelgo di non essere”.
Il “Sento di farcela” di Rilke fa così da eco al “Posso” di Hopkins. Comunque siano i risultati delle elezioni, entrambi i poeti ci illustrano una posizione umana aliena da ogni cedevolezza, pronta a ricominciare, umilmente determinata a costruire. Ed è una posizione che ha molto da dire anche in politica.