Come titolava Le Monde nei giorni scorsi, l’Italia va al voto nell’incertezza.

Le notizie che circolano in questo momento sui risultati elettorali confermano l’affermazione dell’autorevole quotidiano: abbiamo votato per il Parlamento ma ora le sorti del Governo del nostro Paese sono quanto mai problematiche poiché, almeno a prima vista, non sarà facile coagulare una maggioranza che possa efficacemente e a lungo governare. Se la stabilità viene garantita nelle democrazie avanzate da meccanismi elettorali e da un sistema di partiti che mirano a determinare in anticipo anche le sorti dell’esecutivo (e principalmente del suo capo), entrambi i fattori in Italia hanno contribuito a generare il suo opposto, una situazione di confusione da cui non sarà facile uscire, almeno a breve.

La situazione che si sta delineando è, infatti, quella di una crisi istituzionale senza precedenti, in cui ogni possibile “coalizione” soffrirà di una endemica crisi di identità, figlia di posizioni culturali e politiche ciascuna in lotta contro tutte le altre. Se la matrice dell’individualismo hobbsiano è la logica dell’homo homini lupus, pare che ora essa si sia insediata in Parlamento, determinando una serie di “partiti individuali” incapaci di trovare un terreno comune su cui costruire un accordo. Segni premonitori e preoccupanti del risultato che si profila erano già presenti nelle impostazioni che i contendenti avevano dato alla campagna elettorale, una campagna fumosa e contraddittoria, ondivaga e fortemente impregnata di populismo o di irrealismo, il cui file rouge era solo quello (evidente a chiunque) della conquista di consensi.

La forte affermazione dell’antipolitica è stata, consciamente o inconsciamente, una risposta all’aria inquinata che abbiamo respirato per settimane. Fino a che i numeri non saranno assestati è difficile fare previsioni. C’è solo da sperare che il timore del disastro, dell’ingovernabilità o del ritorno alle urne spinga a scelte davvero ragionevoli e miranti al bene del Paese. E’ un ultimo filo di speranza, che non può né deve venire meno. Come alcuni hanno detto, occorre riprendere il rapporto con la società civile, con la sua domanda di partecipazione effettiva che non si riduca al momento del voto ma riparta da una rinnovata passione per il bene comune.

Questa non è una scelta “istituzionale”; è piuttosto la riscoperta che ogni democrazia ha ineludibili basi morali. Non moralismo ma una necessità, ora imposta, di partire dalla propria esperienza umana, dalla propria domanda più profonda come motore anche della politica, oltre che della vita quotidiana. In questo la tradizione del popolo italiano è ancora maestra: al di là delle scelte elettorali, tutte indistintamente intrise di scetticismo, occorre che siano riannodati i fili tra sistema politico e vita concreta del popolo, delle famiglie, delle associazioni, delle comunità locali, senza della quale il teatrino della politica è destinata a trasformarsi in tragedia.

 

Aspettando i risultati definitivi, non si perda l’occasione da parte dei partiti, delle istituzioni, del Capo dello Stato e dei responsabili della vita pubblica di aprire una riflessione ampia e sincera su come uscire dall’empasse, che comunque ci sovrasta, su come ridare fiato al Paese. Il primo capo di partito che si presentasse in televisione dicendo che ha vinto è l’esatto opposto di quanto si sta dicendo. E, invece, riprendere lo spirito che ha animato i Padri Costituenti può essere, forse, un primo passo di ripresa. Ma anche un nuovo sistema elettorale che non sia lo schiavo dei propri padri e che, ad oggi, ha fatto al Paese tutto il male possibile.