Quando, lunedì scorso, i dati dello spoglio elettorale cominciavano a farsi chiari e a grandi linee definitivi, il mio primo sentimento è stato di rabbia. La parola “ingovernabilità” rimbalzava da un canale tv all’altro, da un commento all’altro. 

Molti pensieri ostili si agitavano in me, diretti un po’ verso tutti. Verso Berlusconi, principale responsabile della perdita di senso della politica e della democrazia del nostro paese. Verso Monti, colpevole di essere sceso in politica facendo mancare al paese una via d’uscita “tecnica” in un’eventualità come quella che, guarda caso, si è verificata. Verso la dirigenza del Pd, così intestardita nel suo duello con Berlusconi, e invecchiata in vent’anni di battaglie sul conflitto d’interessi, che ha preferito bocciare un sicuro leader come Renzi senza avere elaborato un pensiero che fosse uno sui problemi reali dell’Italia. 

Tutti loro avevano, secondo quel mio giudizio viscerale, concorso alla vittoria di Beppe Grillo e del suo movimento, del quale nel frattempo non ero riuscito a cogliere alcuna idea, alcun progetto. 

Poi, un nuovo pensiero mi ha colpito, ben più essenziale di tutte le mie riflessioni rancorose. Adesso, mi sono detto, è proprio vero che ci sono in gioco io. Molti articoli, su queste colonne e su altre, ad opera di persone amiche, avevano già toccato questo punto, ma io mi sono reso conto di avere capito quelle parole solo a livello intellettuale, senza interrogarmi sulla loro portata esistenziale. 

Cosa intendo per portata esistenziale? Intendo qualcosa che comporta delle conseguenze pratiche. Viene il momento in cui ci si impone il dovere di ragionare e agire diversamente da prima. Adesso che l’Italia è ingovernabile, le prospettive per me e per ciascuno di noi sono tre: o affidarsi all’ipotesi di una soluzione quasi miracolosa, o abbandonarsi alla rabbia (come è accaduto a me in un primo momento) o cominciare a pensare che un momento come questo, proprio perché è così com’è, può essere propizio per me. 

È come se una mano ironica avesse condotto gli avvenimenti fino a costringerci a una presa di posizione personale. Ora più che mai il contributo di ciascuno di noi risulta decisivo. Ciò che chiamiamo Italia acquisterà un volto a seconda del modo in cui ciascuno di noi si porrà di fronte al tempo che verrà e alle sue incognite, anche negative. 

Oggi meno di ieri siamo in grado di rispondere alle domande più elementari della vita quotidiana. Quale sarà il futuro dei nostri figli? Cosa sarà dei quattro soldi che siamo riusciti a mettere da parte per loro? Cosa sarà della mia famiglia se perdo il lavoro? Le ultime elezioni hanno radicalizzato queste questioni. 

Eppure proprio questa condizione difficile può aiutarci a vivere sempre più da protagonisti la nostra vita, snebbiandoci un po’ sul senso della parola “protagonismo”, che non è innanzitutto la capacità d’impresa ma un’essenzialità nel rapporto con sé stessi e con il mondo. 

Se non ho più soldi né grandi discorsi da dare a mio figlio, se dopo una vita di benessere dovrò rassegnarmi all’idea che mio figlio potrebbe essere una persona povera, mi resta ciò che io sono, la verità di me, la possibilità di dire “Gesù Cristo è la mia forza” (come ha detto Benedetto XVI fino all’ultimo istante del suo pontificato) con una certezza più grande.

In questa certezza, prima che in ogni altra cosa, sta quell’atteggiamento culturale che molti tra noi hanno chiamato “libertà di educazione”. Queste elezioni ci dicono che, ora, la posta in gioco siamo noi stessi: aiutiamoci a non perdere questa occasione e a vincere così la paura del futuro, che dimezza la nostra umanità.