Dopo Francesco non si torna più indietro. L’errore più grande che chiunque in questo momento può fare è dimenticare l’attesa con cui ha sentito vibrare il proprio io di fronte a quella fumata bianca. Dimenticare quell’attesa in nome di una “sindrome da tifoso”, infatti, significa rinunciare alla posizione più ragionevole che ciascuno di noi ha tenuto in questo Conclave: la percezione che stesse per accadere qualcosa per me, qualcosa di grande, qualcosa che avrebbe cambiato la storia per sempre, la mia vita per sempre.



Questo qualcosa è accaduto e ha la faccia, il nome, gli occhi, di Papa Francesco. Francesco entra nelle nostre vite con la semplicità di chi ci fa pregare, con la disarmante forza di un nome inatteso, con le parole di una teologia nuova, a cui forse non siamo abituati, ma di cui – proprio per questo – abbiamo terribilmente bisogno.



Se Benedetto ci aveva suggerito con tutta la propria vita la necessità di ripartire da Cristo, Francesco ci mostra la via di questo nuovo inizio: la povertà. Chi non è povero nel cuore, chi ha ancora qualcosa da difendere, non può abbracciare con gioia e letizia Cristo perché ha dentro di sé qualcosa per cui, in definitiva, è più importante vivere. Francesco smaschera con quel nome quelle ricchezze che copriamo e per le quali ognuno di noi non entra nel Regno dei Cieli: il desiderio di aver ragione, la rivendicazione del male subito, i nostri valori ormai trasformati in ideologie con cui misurare e soffocare tutto e tutti.



Papa Francesco è un invito alla libertà, quella libertà che non si trova nelle strutture (egli si è semplicemente definito il pastore della comunità di Roma), ma si trova nella fraternità toccata da Cristo, dalla mendicanza semplice del Suo nome e della Sua forza. Che strano ascoltare Francesco per la prima volta e capire che è tutto così serio e così semplice. Anche quel suo stesso definirsi a più riprese Vescovo di Roma, e mai Papa, sembrava un modo per dirci che il compito che ha la Chiesa di Roma non è l’autorità, ma la testimonianza e che la stessa autorità o è testimonianza convinta della sequela di Cristo o non lo è. Mi sembrava di risentire don Giussani, la sua stessa forza, la sua stessa immediatezza.

Papa Bergoglio ci ha subito messi tutti con le spalle al muro, togliendoci ogni alibi, mostrandoci una strada che è propria di chi vuole ricostruire la propria vita, abbracciare e sposare la propria povertà col desiderio di edificare un mondo nuovo con la forza che nasce dalla fede nel Signore. Non ci ha fatto complimenti. ci ha fatto pregare e si è messo subito al lavoro. Preghiamo gli uni per gli altri, ha detto. E improvvisamente ogni divisione si è sbriciolata in nome di qualcosa che ci impediva ormai di fare i capricci. Egli ci ha detto che tutti, vicini e lontani, facciamo parte della stessa storia e che nessuno può sostituire la responsabilità dell’altro nel vivere: non ha dettato una linea, papa Bergoglio, ne ha segnata una con il proprio cuore e il proprio spirito, una dalla quale nessuno di noi ormai può più tornare indietro.