Nella confusione dei vicoli stretti e affollati nel centro della città vecchia di Gerusalemme, all’incrocio tra il vialetto che scende al Muro del Pianto e la strada che sale alla chiesa del Santo Sepolcro, c’è un piccolo santuario che segna la Quinta Stazione della Via Crucis. La quinta tappa del percorso che i pellegrini compiono sulle tracce di Gesù, verso il luogo della sua esecuzione. Amo molto soffermarmi lì per meditare la figura e l’esperienza di quello straniero che fu preso con forza dai soldati e obbligato a sobbarcarsi il peso della croce: Simone di Cirene.
Lui, allora, si sarà sentito vittima di una grande disgrazia. Minacciato dai Romani e gettato improvvisamente e senza motivo in uno scenario di punizione e morte, chissà che non sia stato tentato di maledire il Signore. Tuttavia, notiamo nel vangelo qualcosa di strano. Simone fu preso a caso dalla folla, eppure conosciamo sia il suo nome sia il suo paese di origine, la lontana Cirene, nell’attuale Libia. Non solo: l’evangelista scrive anche i nomi di due dei suoi figli, Rufo e Alessandro (Mc 15,21). Come poteva l’evangelista sapere queste cose? Le conosceva perché, da quella croce insanguinata e impolverata, quel Simone non si è più allontanato. In quella circostanza di disgrazia e paura si è scoperto accompagnato come mai avrebbe sognato di essere accompagnato. Perciò ha voluto restare per sempre in quella compagnia: lui e i suoi figli divennero ben noti agli amici dell’uomo sulla croce, Gesù.
Invoco spesso le preghiere di Simone di Cirene. Chiedo di poter benedire il Signore proprio per quelle esperienze di dolore e paura che mi indurrebbero a maledire. Chiedo di poter ringraziare di cuore il mio Dio per avermi portato dove non volevo, nella sofferenza, e di avermi fatto scoprire, ancora una volta, che sono accompagnato come mai avrei pensato possibile.
Non svelo nessun segreto, raccontando che, poco prima della mia ordinazione sacerdotale, sono caduto nel buio di una crisi nervosa molto profonda, e che i miei primi anni di sacerdozio sono stati segnati dalla necessità di superare le pesanti conseguenze di tale crisi. 

Riuscivo a fare poco. Spesso niente. Sensibilissimo alla luce, incapace di stare molto tempo in compagnia, mi recavo in camera da letto nel buio, rannicchiato col rosario in mano. Eppure, posso dire che quelli sono stati gli anni più felici della mia vita. In tanti modi, infatti, il Signore mi ha fatto capire che sono davvero accompagnato, che il Figlio di Dio e Salvatore si fa scoprire lì.
Scoprirsi accompagnati proprio nell’esperienza umana che più ci fa sentire isolati e abbandonati, ci libera dalla paura della morte. Come Simone di Cirene, finiamo per benedire il Signore proprio per quell’esperienza per cui l’avremmo maledetto. E non vogliamo più lasciare quella compagnia.
Simone di Cirene, prega per noi!