Comincia la settimana santa. Si sa: è il culmine di tutta la fede cattolica e del ciclo annuale che ne celebra i contenuti.
Un estraneo – penso ai nordafricani oppure ai cinesi che vivono numerosi nel mio quartiere – si aspetterebbe forse che al centro di questo periodo ci sia una ben ordinata esposizione di contenuti dottrinali, una solenne esplicitazioni di idee sull’uomo, la vita, il mondo e l’aldilà, un richiamo ai precetti morali e di comportamento che ne derivano. E invece il protagonista indiscusso dei prossimi giorni è quanto di più normale, concreto e inequivocabilmente presente alla consapevolezza di tutti: un corpo.
Gran parte della storia dell’arte occidentale ha preso a soggetto delle proprie rappresentazioni i grandi avvenimenti che stiamo per ricordare; le nostre chiese li mostrano con miriadi di immagini scolpite, affrescate, su tela, sugli oggetti sacri; ebbene, qual è la figura più frequente? Il corpo quasi completamente nudo di un giovane uomo inchiodato ad una croce. L’esposizione dei corpi e l’ostentazione della nudità è ormai comune sia nella nostra esperienza pratica, sia soprattutto nell’universo delle immagini in cui ci imbattiamo. Eppure quel corpo possiede caratteristiche assolutamente uniche; basta scorrere un qualsiasi manuale di storia dell’arte, ricercare su internet, guardarsi in giro in chiesa per accorgersene. Prima di tutto non ha niente dell’evidente finzione dei corpi patinati cui ci abituano le pubblicità o gli spettacoli e che, magari, molti cercano di ottenere con forzate sedute di ginnastica e enormi spese cosmetiche.
È un corpo normale e, per di più, un corpo ferito, piagato.
L’arte greca ha inseguito per secoli – accostandosi in modo impressionante al suo obiettivo – l’armonia di corpi umani che riflettessero qualcosa della irraggiungibile perfezione degli dei.
L’arte cristiana ha inserito in questa ricerca la scandalosa evidenza di un corpo divino che porta in sé la bruttura tipicamente umana della ferita, della piaga, della tumefazione, del sangue che scorre. Guardate la mano crocifissa del Cristo di Velazquez: è chiusa nello spasimo prodotto dal chiodo infisso e il sangue cola sull’avambraccio. Proprio affermando l’inaudito scandalo per cui la bellezza assume in sé anche il dolore il cristianesimo ha fatto uscire per sempre la bellezza stessa da ogni deriva estetizzante.
Non c’è nessun bello – dice ogni crocifisso, anche artisticamente modesto – che non debba fare i conti col dolore che sembra sfigurare ogni armonia, devastare ogni equilibrio.
Quel dolore che ciascun uomo scopre inevitabilmente anche nel suo corpo, sentendo in tal modo incredibilmente consono a sé il racconto storico di un Dio che ha accettato questo stesso dramma.
Ma il corpo non è protagonista solo della tragedia del Golgota.
Già la sera prima, nell’ultimo pasto consumato coi suoi amici Gesù aveva proposto l’inaudito realismo dell’eucaristia.
È difficile da spiegare all’immaginario arabo o cinese del mio quartiere; eppure resta quel fatto che non si può edulcorare attraverso riduzioni simboliche o generici richiami alla convivialità, resta il fatto che l’eucaristia consiste nell’immedesimazione così incredibilmente realistica con Gesù che ci si nutre del suo copro. Ciò è possibile perché il mattino della domenica il corpo che aveva cenato con gli amici ed era morto sulla croce ha ripreso vita; proprio quel corpo nella sua concretezza carnale, tanto che ai discepoli increduli Gesù potrà offrire la sua piaga per metterci il dito.