Un Salone di Maestri

Il Salone del Mobile non salverà l’Italia, ma se ci vogliamo salvare dobbiamo imparare la lezione che ci dà. Quella del dovere all'eccellenza è una di queste lezioni. LUCA DONINELLI

Un intellettuale non è un intellettuale se almeno una o due volte all’anno non si sente dire “ma come ti permetti”, “documentati prima di parlare”, “la prossima volta stai zitto così fai bella figura” eccetera. Sono cose che bisogna mettere in conto. Milano celebra in questi giorni il Salone del Mobile, con la sua appendice, il cosiddetto “Fuori salone” che addobba la città come se fosse un albero di Natale, con le palline colorate formate dall’abbigliamento esagerato di una folla esorbitante di gente che blocca il traffico con i suoi aperitivi, i suoi stuzzichini davanti a questo negozio o a quello “spazio” – come si dice dalle nostre parti – e che da una certa ora in avanti appare decisamente bevutella, e popola la via di ritorno sui tram col proprio alito vinoso e con molte sciocchezze urlate all’iphone. Comunque sia, una cosa è il Fuori Salone e un’altra il Salone. Il primo non è affatto la parte visibile in città del secondo: si tratta, mi pare, di due cose diverse.
Quello che conta è il Salone. Nel Salone non ci si riempie la bocca di parole esotiche (oggi va la start-up, domani non si sa), e l’aperitivo non fa la parte del leone. Perché il Salone è una cosa seria almeno per due motivi.
Il primo è che qui più che altrove si conserva una dimensione del lavoro artigianale che in molte parti del mondo si sta perdendo. Bisogna andare in una delle loro fabbriche per capire la dedizione, la minuziosità, la precisione che necessitano per portare il prodotto italiano a certi livelli qualitativi. Fa ancora impressione l’idea che dietro linee così moderne e dietro tante novità seducenti ci sia, il più delle volte, la pazienza di anziani mobilieri che, poco alla volta, trasmettono ai loro eredi giovani (spesso di origine straniera) i segreti della loro arte. In altre parole: l’artigianato di alta qualità ha bisogno di maestri. Che, per fortuna, da noi ci sono ancora. Tocca alla scuola e al sistema educativo in generale formare dei giovani che siano in grado di apprendere con passione.
Il secondo motivo è che, in un momento così difficile soprattutto per l’Italia, dove ogni giorno ci sono aziende che chiudono con conseguenze letali non solo sull’occupazione ma sul sentimento di dignità delle persone, il Salone ci presenta uomini capaci di opporre al disastro un valore fondamentale: la certezza della bontà del proprio lavoro. Senza questa felice testardaggine artigiana anche il nostro inestimabile patrimonio di qualità rischierebbe di sfaldarsi.

A questi motivi se ne aggiunge un terzo. Chi espone al Salone grazie al livello del proprio lavoro ha imparato come si fa ad affermare il proprio prodotto a livello internazionale. Come dice un mio amico, tutto il mondo vuole comprare l’Italia, tutti ambiscono all’Italia, tutti sognano l’Italia, ma l’Italia queste cose sembra non saperle. Il Salone è importante anche per questo, per imparare come si trasforma un buon prodotto in un brand (scusate la parola). 
Un vizio culturale proprio del nostro Paese è quello di considerare qualitativamente superiore il prodotto vergine da ogni implicazione col mercato. Forse per colpa di alcune schiere di furbacchioni, è ancora radicato in noi il pregiudizio secondo il quale commercializzare e promuovere un prodotto implica necessariamente un abbassamento della qualità. 
Invece, per vincere la sfida del mercato è necessario l’esatto opposto, perché se ci si vuole affermare su scala internazionale è necessario essere in grado di rispondere a tutte le esigenze di qualità del mercato internazionale. Mio padre andava a comprare il vino dal contadino perché diceva che di vino così buono in commercio non ce n’è. L’Italia sconta ancora questo tipo di mentalità, e il mondo lo sa meglio di noi. 
Per concludere: il Salone del Mobile non salverà l’Italia, ma se ci vogliamo salvare dobbiamo imparare la lezione che ci dà. Il Salone ci ricorda che l’eccellenza non è un lusso o uno sfizio ma un dovere, perché ogni uomo ha il dovere di dare il meglio di sé. Ci ricorda che l’eccellenza si conquista con il lavoro tenace, e che il lavoro lo si impara da chi già lo conosce, quelli che noi chiamiamo maestri.

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