Restano due le ipotesi circa la matrice dell’attentato che ha colpito Boston lunedì scorso. La prima pista è quella legata al terrorismo di matrice islamica ed in particolare di Al Qaeda. La seconda ipotesi, quella del terrorismo domestico, è avvalorata innanzitutto dalla data dell’attentato: il 15 aprile si celebravano negli Stati Uniti sia il Patriots day, festa che ricorda l’inizio della Rivoluzione americana e il Tax day, ultimo giorno per la dichiarazione dei redditi. Negli ultimi anni l’intelligence statunitense ha rilevato che le minacce più consistenti per la sicurezza del paese provengono da persone isolate che diventano potenziali terroristi grazie agli insegnamenti che attingono dal web. A soli 5 giorni dalle esplosioni sappiamo poco o nulla di chi c’è dietro quest’attentato. Però abbiamo tutti quanti molto chiaro il valore, non soltanto simbolico, di quel sangue: ci fa capire innanzitutto di quanto ci fa male il male, ma nello stesso tempo rafforza le ragioni per le quali occorre lottare, tutti insieme, quotidianamente, per la democrazia e per la libertà.
Sulla spianata che porta alla Casa Bianca a Washington c’è il monumento ai caduti della Guerra di Corea. Davanti all’elenco lunghissimo dei morti, gli americani hanno scritto la frase “Freedom is not free”, la libertà non è gratis. Questo è l’elemento che fa stringere così forte attorno alle vittime e ai loro parenti il popolo americano. La vittima di un male cieco come questo è infatti considerata dai cittadini americani come qualcuno che si è battuto per la nazione, per il bene di tutto il popolo. Le vittime di Boston, come quelle dell’11 settembre 2001, nella mente degli americani, non sono vittime casuali: sono persone cadute in combattimento per la libertà. Questo tipo di consapevolezza, che dà una forza di coesione enorme a quel paese è anche una pietra di paragone per tutti, per capire una sfida che tutti viviamo. Questo sentimento, che ha aiutato tante volte gli Stati Uniti a venire fuori dal guado, non è un elemento estraneo alla storia italiana. Questo atteggiamento ci fa riscoprire quanto c’è di bene nella nostra storia e ci ricorda che c’è sempre qualcosa per cui vale la pena batterci.
Dentro l’esperienza italiana ci sono diverse testimonianze simili. Anche nella storia recente, ad esempio in un periodo così difficile come quello a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, siamo sempre riusciti a far venir fuori una ragione buona per non perdere la speranza, per avere fiducia comunque.
Viviamo in una condizione di smarrimento e di confusione in cui la classe dirigente appare incapace di porsi come argine alle difficoltà. Il tempo di crisi e di emergenza che stiamo vivendo deve essere sfruttato quindi per mettere la classe politica nelle condizioni di affrontare nel miglior modo possibile le sfide che ci attendono. I dieci giorni di lavoro dei cosiddetti “saggi” voluti dal Presidente Napolitano hanno fatto emergere numerosi punti sui quali i partiti possono convergere. Qualcuno ha detto che abbiamo scoperto l’acqua calda. Verissimo. Proprio per questo il metodo proposto da Napolitano per questo nostro lavoro è l’unica strada percorribile. Anche per quanto concerne l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica non possiamo staccarci da questa impostazione.
L’individuazione della figura di un presidente non può essere prodotta da una conventio ad excludendum. Al centro della partita del Quirinale non c’è tanto questa o quella figura, ma la riconciliazione nazionale, l’esigenza di affrontare bene attrezzati tempi ancora più duri di quelli di oggi.