Quando il popolo perdona

Il terrorismo è un atto simbolico nel quale la volontà di ferire è palese, spiega FERNANDO DE HARO. Il terrore, accompagnato dalla paura, è una delle negazioni più evidenti dell'umano

Sabato scorso Neil Diamond si è esibito a’Fenway Park, lo stadio dei Red Sox di Boston. Non appena ha cominciato a cantare Sweet Caroline è stata raggiunta la catarsi.

Il secondo sospetto autore dell’attentato alla maratona era stato preso da poco e i bostoniani potevano così uscire finalmente di casa, dopo essere stati un giorno intero sotto chiave viste le raccomandazioni della Polizia che stava perlustrando il distretto di Watertown. Neil Diamond compose Sweet Caroline nel 1969, pensando alla figlia di JFK, il bostoniano divenuto Presidente. Il testo parla dei tempi difficili e di come superarli.

Il “So good” del ritornello è di solito accompagnato da tutto il pubblico.

La passione per i Red Sox contraddistingue la vita di Boston. Ma lo scorso fine settimana, con Neil Diamond, si cantava qualcosa in più. Si cantava la vittoria sul terrore, il desiderio di superare la paura. Durante gli ultimi accordi tutti i presenti hanno urlato il nome del loro Paese all’unisono. Un popolo che canta unito negli stadi o nelle chiese per salutare i suoi morti e per guardare al futuro con speranza ha già fatto molta strada.

Ma Sweet Caroline è sufficiente? Fernando Reinares, uno dei maggiori esperti al mondo di terrorismo internazionale, sosteneva alcuni giorni fa che in un mondo aperto come il nostro è impossibile che gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali non subiscano attentati di questo tipo. Arrivando a dire che si tratta di una “quota di dolore” alla quale è necessario abituarsi. Occorre sviluppare una “resilienza” sociale. Si è visto bene che non è così. Né gli Stati Uniti, né la Spagna, né Londra, né nessun altra città occidentale si “abitua” al dolore.

Tutti gli anni, tutti i mesi, muoiono decine, centinaia di persone, in incidenti, rapine e omicidi. E il male provocato da tutti questi’eventi non ha la stessa capacità di ferire del terrorismo. Colpire a Boston è colpire dove fa più male. Come farlo a New York o alla stazione di Atocha a Madrid o nella metropolitana della City. Il male che un attentato di queste caratteristiche produce dura tanto tempo. Non è un caso che gli Stati Uniti si siano trasformati, da 12 anni a questa parte, in un Paese polarizzato e diviso come poche altre volte nella sua storia.

Il brutale conflitto tra Repubblicani e Democratici, che ha spazzato via i vecchi consensi, è impossibile da comprendere senza avere in mente la politica di Obama, l’elezione di Obama non si può capire se non si tiene conto degli errori di Bush, i quali a loro volta vanno inseriti nel contesto della reazione brutale che ha provocato l’11 settembre. Allo stesso modo la frattura della società spagnola, che ha distrutto gli accordi alla base della Transizione, non si spiega senza le bombe nei treni del 2004. Il terrorismo dell’Eta nei Paesi baschi ha generato una società, in gran parte, malata.

Molto si è scritto anche su quello che ha significato l’assassinio di Aldo Moro. E il lungo cammino che ha dovuto fare l’Irlanda per cominciare a guarire dimostra che gli effetti del male non si superano con facilità.

Il terrorismo è un atto simbolico nel quale la volontà di ferire e causare danno appare palese. Il terrore, accompagnato dalla paura, è una delle negazioni più evidenti dell’umano.

I popoli non sono fatti per l’ingiustizia e conservano nella loro memoria il danno ricevuto. Per questo non è strano che, spesso, quando dicono di aver dimenticato, il risentimento appaia in mille altri modi. E quando dicono di lottare per l’ingiustizia, bramano vendetta.

Quando dicono di essere tornati alla normalità è perché hanno piegato chi li ha colpiti. Per questo non capita di rado che tutti finiscano con l’incolparsi a vicenda.

Tutto questo rende necessario custodire i rari e preziosi momenti della storia nei quali un popolo riconosce il male sofferto o causato e lo perdona.

Questo accade per l’Europa del dopoguerra nei confronti del nazismo, per l’Italia degli anni ‘50 o per la Spagna che riuscì a compiere la Transizione alla democrazia.

In quei momenti ci sono stati sempre uomini coscienti del fatto che il male non è uno scherzo, non va via con le buone intenzioni: c’è bisogno di una redenzione. Tutti vogliamo cantare Sweet Caroline non come un bel desiderio, ma come la possibilità di vivere meglio il presente.

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