Domenica scorsa ascoltavo la radio quando, nel mezzo del notiziario, la voce del Papa mi ha rapito. Era in corso un vero dialogo, uno di quelli storici, in piazza san Pietro, tra Lui e migliaia di giovani accorsi da molte parti del mondo per festeggiare la giornata mondiale delle vocazioni.
All’inizio una semplice domanda: “Vorrei chiedervi: qualche volta avete sentito la voce del Signore che attraverso un desiderio, un’inquietudine, vi invitava a seguirlo più da vicino? L’avete sentito?” Poi la pretesa di un dialogo vero: “Non sento! Avete avuto voglia di essere apostoli di Gesù?”. Il boato della piazza è stato commovente. In quel boato io ho risentito tante cose, ho risentito tutta la forza del mio sì di uomo e tutta la tenerezza per le decine di persone che quotidianamente incontro e che il loro sì devono ancora pronunciarlo. Perché quando il Papa faceva quelle domande, non voleva suscitare una valanga di vocazioni sacerdotali o religiose, ma voleva che ad ognuno di noi fosse chiaro che la vita, ogni vita, è una vocazione.
Ogni storia, piccola o grande, fragile o solida, ha un destino, è per uno scopo. Ma non basta: Dio chiama ognuno di noi in una strada e non si ferma, ci incalza, finché non ha sentito, chiaro e forte, il nostro sì. Perché la vocazione, quella vera, si realizza nel sì di Dio e nel sì del mio Io. Per questo il problema della vita non sono le cose che accadono, ma il destino, lo scopo di ciò che accade. Così, due ragazzi che sentono fra di loro un legame che cresce, un sentimento, non devono porsi il problema di quali mobili comprare per la loro futura cucina, attribuendo al loro amore un finale già inequivocabilmente scritto, ma piuttosto capire per che cosa è dato quel sentimento.
Nella nostra epoca hollywoodiana, ci dice il Papa, è facile pensare che le cose abbiano un solo scopo, un solo e unico significato ed è semplice ritenere che quello scopo e quel significato sia quello giusto. Ma la vita non funziona così. La vita è un cammino in cui Dio ci chiama attraverso le cose, una strada dove tutto ciò che accade richiede un lavoro di consapevolezza, di giudizio, di scelta. Altrimenti, in un matrimonio, basterebbe provare un’attrattiva per un’altra persona e sarebbe giustificatissimo chiudere ogni tipo di legame precedente. Mentre invece non è così. Ogni attrattiva ha un significato, ogni sentimento ha un suo perché. E non basta desiderare di scoprirlo per viverlo con verità e maturità.
Occorre un lavoro, una verifica seria, che ci porti dall’entusiasmo iniziale al giudizio senza appello. E questo può accadere se il sentimento, se l’intuizione iniziale, non resta una proprietà privata, ma diventa tema di un dialogo più grande dentro una Storia più grande delle nostre piccole storie.
Per questo la Chiesa, per le vocazioni religiose o sacerdotali, ha sempre pensato dei percorsi seri di verifica, per questo il Papa invita ad ascoltare la voce di Gesù dentro la voce della Chiesa. Perché solo dentro un ambito di vita maturo tutta la forza e la grandezza di una persona può essere portata a reale compimento. Non c’è amore che fiorisca da sé, non c’è consacrazione che non passi attraverso il crogiuolo di una autorità. Questo perché in natura avviene proprio così: se il seme non muore, resta solo. Se il seme muore, porta frutto.
Tra i ragazzi la cosa più assurda è proprio questo gioco terribile, sostenuto dai genitori, in cui ragazzino e ragazzina vivono già come se fossero sposati, coppia inossidabile al trentesimo anno di matrimonio. Ne seguono inviti reciproci a casa l’uno dell’altro, regali per le feste, convivenza de facto (escluso il dormire che, per sacra ipocrisia, deve essere ancora rigorosamente diviso). Tutto questo non accade in famiglie laiciste o al limite della pubblica morale, ma nelle case di molte famiglie rispettabili che ritengono, così facendo, che i loro figli siano davvero normali, come gli altri. Due ragazzi che si innamorano o vanno a fondo del loro amore attraverso dei rapporti adulti che li facciano sbocciare, vivendo ciascuno la propria vita, oppure il loro amore è destinato ad un’inesorabile fine.
Così un’intuizione di vita “diversa”, nella consacrazione come nel sacerdozio, o è consegnata a qualcuno con cui guardarla insieme oppure morirà delle fantasie di chi l’ha percepita. Non si diventa preti giocando a fare la Messa e non si diventa sposi vivendo la sessualità coniugale. L’individualismo è la morte di ogni vocazione. E quel sì detto in piazza san Pietro domenica scorsa è la prova che tutti, ma proprio tutti, abbiamo bisogno di un Padre per crescere e per tirare fuori dal cuore il vero seme di Dio.