La Spagna è una buona fabbrica di termini politici e di “resistenza” cittadina. Le parole liberal e guerriglia, che hanno il “timbro” Made in Spain, sono entrate a far parte del vocabolario universale. La stessa cosa è successa con l’espressione “indignados” dopo che due anni fa un gruppo di scontenti ha occupato Puerta del Sol per settimane.
I media di tutto il mondo hanno diffuso le immagini di quell’“accampamento” (improvvisato?), nel quale si tenevano assemblee permanenti. Alcuni vollero vedere nella protesta una sfida alla democrazia occidentale, una rivoluzione come quella del maggio del ’68. Il fenomeno è stato esportato anche negli Stati Uniti, con il nome di occupy, e ha avuto una certa rilevanza in città come New York e Boston. Le tende dell’occupazione arrivarono fino al campus di Harvard.
Tuttavia, nella migliore università degli Stati Uniti il movimento fu più che altro qualcosa di teatrale e di poco reale: sotto i gazebo non c’era niente. La febbre da occupy si diffuse poi in molti angoli del mondo.
Cosa rimane due anni dopo quelle espressioni di scontento piene di energia che hanno attratto tanta gente?
Che cosa è rimasto degli indignati? Il centrodestra spagnolo temeva che quel movimento fosse stato creato dai socialisti per rendere la vita impossibile al Pp che presto sarebbe salito al potere. Buona parte del movimento 15M si è ri-orientato in questo momento verso la protesta contro le politiche di austerità di Rajoy.
Ma è stato chiaro fin da subito che non erano e non sono marionette del Psoe. Di fatto, i socialisti continuano a essere colpiti dal loro grido di guerra: “No, non ci rappresentano!”.
Già due anni fa era evidente che gli indignati più che un movimento articolato fossero uno “stato d’animo”. Un’espressione del fastidio di fronte ai responsabili di un sistema economico e finanziario che prima aveva creato la bolla immobiliare e poi imponeva l’austerità. Un focolaio di malessere di fronte a un sistema di partiti che si era trasformato in una partitocrazia isolata dalla società.
In questi due anni è stato reso evidente che in quella amalgama di sentimenti e reazioni si mescolava il meglio e il peggio della società post-politica europea di inizio XXI secolo. C’era il desiderio di denunciare l’esaurimento di un sistema di rappresentanza che aveva voltato, in larga parte, le spalle alla società. C’era l’intenzione di partire dal concreto, dalla necessità di quelli che, per esempio, avevano perso la casa o il lavoro. Gli indignati cominciarono a essere per la maggior parte giovani che non avevano (in Spagna) un ricordo della Transizione, né (in Europa) memoria dello sforzo che fu necessario nel secondo dopoguerra per costruire la pace. E sicuramente evidenziarono che la democrazia non può reggersi solo sulla memoria. Anticiparono quello che ora mostrano tutti i sondaggi: una percentuale altissima di votanti non si sente rappresentato dai classici partiti.
Due anni dopo questo segnale e questa denuncia non sono servite e la stima per la democrazia è sensibilmente peggiorata. La intellighenzia si è quindi accorta che le cose devono cambiare. E non è un risultato da poco.
Altra cosa è come questo stato d’animo è stato espresso. Una parte degli indignati, fortunatamente minoritaria, ha assunto atteggiamenti simili al periodo tra le due guerre del secolo scorso. Andava a braccetto con la violenza e ha puntato su attacchi alle istituzioni emblematiche coma la Camera dei deputati. Il suo linguaggio è simile a quello del fascismo o del comunismo degli anni 30. Altri indignati meno radicali hanno canalizzato la loro protesta contro le politiche di riduzione delle spese che ha adottato Rajoy per evitare il salvataggio europeo. Hanno manifestato contro gli aiuti alle banche, contro i tagli al welfare, all’educazione e a tante altre cose. Si sono aggiunti alla gran marea europea che scende in piazza nel sud Europa per lamentarsi dell’austerità come risposta alla crisi. Il loro discorso è quello della socialdemocrazia classica portata all’estremo.
Ed è qui che gli indignati si sono rivelati meno creativi. Ci sono ragioni per protestare contro i tagli: il Governo poteva farli con più intelligenza e con una diversa priorità. Ma è irresponsabile e un po’ infantile dare sempre la colpa agli altri. La bontà di un movimento sociale e la stabilità di un cambiamento è sempre proporzionale alla capacità che ha di suscitare dal basso la responsabilità personale nei cittadini.
Così è stata fatta la rivoluzione americana, la migliore delle rivoluzioni liberali. La responsabilità in questo momento si dimostra nel presentare soluzioni che permettano di passare dal Welfare state alla Welfare society.
Gli indignati volevano aiutare la gente. E un loro grande merito è stato mettere al centro dell’attenzione, non sempre nel modo più adeguato, gli sfratti subiti da coloro che non potevano pagare i mutui. Molti avevano chiesto credito pensando che i giorni “della cuccagna” sarebbero stati eterni, accettando anche clausole capestro. Il Governo è stato quindi obbligato ad approvare un decreto che ritarda l’esproprio delle case per le famiglie più in difficoltà. È stato un merito degli indignati, in questo caso, partire dalla necessità: questo è il modo di fare politica e società dal basso.
Il problema è che la formula per soddisfare questa necessità spesso viene ideologizzata e, inoltre, non viene affrontata in maniera sistematica. Isabel Coixet, uno dei migliori registi al momento in Spagna, simpatizza con il 15M. Nella sua ultima pellicola, Ayer no termina nunca (“Ieri non finisce mai”), uno dei personaggi principali appartiene agli indignados. Attraverso la protesta vuole colmare il vuoto causato dalla perdita di suo figlio e dall’abbandono di suo marito.
Coixet ha il coraggio di mostrare in maniera precisa e drammatica i limiti di un cambiamento che nasce da un dolore risentito. Agnostica com’è sa mettere in bocca di un altro dei suoi personaggi la necessità di ricominciare sempre, a partire dal positivo, dalla redenzione. Un contributo lucido che viene dagli indignati.