Così certamente è difficile continuare. I fatti di queste ultime settimane chiedono un intervento serio al cuore dei problemi che pongono. Da circa vent’anni, infatti, il nostro paese è attorcigliato su se stesso, imprigionato in uno sterile e logorante dibattito su temi come la giustizia, l’immigrazione e i valori non negoziabili che non ci ha reso un popolo migliore, ma che ci ha semplicemente fatto perdere un sacco di tempo nella ricerca della nostra vocazione in seno al consesso delle nazioni.
E questo non perché i temi in questione non siano reali. Affatto. I processi a Milano di Berlusconi, l’aggressione assurda del ghanese Kabobo nello stesso capoluogo lombardo, i matrimoni omosessuali codificati in Francia o il referendum sulle scuole paritarie a Bologna sono tutte situazioni che stanno lì a testimoniare che certe problematiche esistono e non possono essere ignorate. Proprio questo imporsi della realtà, però, ci deve provocare a capire di più le fondamenta su cui edificare le nostre riflessioni.
Bisogna superare l’ideologia in nome dell’esperienza. E una tale operazione è possibile se cominciamo a non ritenere i temi etici o culturali come temi staccati dalle questioni economiche: qualunque casalinga di Voghera, infatti, sa che è la visione della vita ad influenzare le spese e l’economia di una famiglia. Se io ho un progetto per il quale il motorino di mio figlio vale di più che i suoi libri di scuola, organizzerò le mie entrate e le mie uscite in un certo modo; se le vacanze della famiglia sono giudicate più importanti della visita dal dentista, mi comporterò di conseguenza. La persona non è un essere diviso. E continuare a dire che le nostre posizioni sul fine vita o sul matrimonio non influenzano le decisioni economiche è uno specchietto per le allodole costruito apposta da chi vuole creare una distinzione profonda tra l’identità e la moralità della gente, tra l’appartenenza vissuta e il giudizio emesso sulle singole questioni esistenziali.
La persona è una ed è compito della comunità civile non distinguere le sfere di intervento, secondo lo schema conosciuto con il nome di “laicità esclusiva”, ma stabilire le priorità, integrando e facendo dialogare le diverse sensibilità in vista di un bene comune superiore, senza dimenticare o mettere a tacere nessuno. Questo, però, è possibile nella misura in cui si compie un passo in avanti sul linguaggio che oggi usiamo. In questo momento su molti temi siamo impantanati e fermi proprio perché continuiamo ad usare una grammatica logora e inconcludente, una grammatica che irrigidisce le posizioni e non apre ad un confronto vero e serrato.
Quale partito popolare, infatti, può pensare di promuovere le proprie posizioni sui matrimoni omosessuali con le parole superficiali e imbarazzanti sentite in questi giorni da alcuni deputati del Pdl? Quale partito democratico, d’altro canto, può continuare a esprimersi sul tema della giustizia e del rapporto fra i poteri dello Stato con le espressioni verbalmente violente e snob di molti onorevoli e senatori del Pd? Non si tratta di questioni personali o di posizioni ideologiche: si tratta di abbandonare un certo schema linguistico che genera rissa e non confronto per il bene comune.
Noi abbiamo bisogno di ripartire dall’esperienza per dire, dal di dentro dell’esperienza, le cose vere della vita. Vogliamo, ad esempio, affermare una volta per tutte che se una persona si trova ad essere attratta da un’altra persona dello stesso sesso non succede assolutamente niente e non viene giù il mondo perché il punto nella vita non è chi ci attrae, ma che cosa decidiamo di fare delle emozioni e dei sentimenti che ci coinvolgono? Vogliamo provare a dire che a volte la Legge non è sufficiente a comprendere e a gestire i fenomeni politici, per cui il sistema legislativo deve essere sempre considerato come un sistema aperto e non chiuso, fino al punto di codificare un nuovo tipo di rapporto tra i poteri dello Stato? E, già che ci siamo, possiamo iniziare a sostenere che è nella tradizione della penisola italiana sia accogliere le genti straniere sia aiutarle a fare un percorso di reale integrazione culturale con la storia e la sensibilità del nostro paese, senza permettere inutili emarginazioni o insopportabili auto-ghettizzazioni?
Tutto questo si può iniziare a sottolineare solo se cominciamo a sviluppare un linguaggio che non parte dall’ideologia per leggere la realtà, ma dall’esperienza concreta. Si tratta di usare una ragione, come diceva Benedetto XVI, non chiusa in se stessa nella propria conoscenza, ma aperta al reale e alla storia. Nessuno, infatti, propone di modificare posizioni millenarie, ma di esprimerle nel XXI secolo. E non c’è nessuno che ha in mente di assolvere Berlusconi per principio, ma di parlare senza pregiudizio del problema della Giustizia e del suo rapporto con la Politica. Così come nessuno pretende di chiudere le porte a chi viene in Italia dai paesi del Mediterraneo, ma di continuare a fare esistere l’Italia come Nazione anche nei prossimi 150 anni senza farla risucchiare da un suk culturale dannoso per la stessa convivenza civile.
Ovviamente tutto questo sforzo di ripensamento linguistico implica un lavoro non da poco. Un lavoro che richiede libertà, coraggio, forza d’animo, consapevolezza delle proprie tradizioni e della propria cultura, un lavoro di popolo. L’alternativa a tutto questo è una sempre più profonda divisione tra tribù etniche e culturali, divisione che porterà un giorno il nostro paese ad un clima di odio insostenibile di cui, già oggi, cominciamo a vedere i primi frutti. Per questo occorre intervenire al più presto. Dobbiamo intervenire come cittadini, come uomini, con il desiderio di riformulare consapevolmente la nostra grammatica e il nostro linguaggio, non per strizzare l’occhiolino al mondo, né per cedere ad una foga reazionaria, ma per avere accesso al futuro da protagonisti. Un futuro in cui la Politica la smetta di costruirsi sull’ideologia e sul malaffare, ma torni ad essere la più autentica garante dell’esperienza del singolo “Io”.