Dominique Venner, l’uomo che si è dato ieri la morte sparandosi sull’altare della cattedrale di Nôtre Dame, a Parigi, non è morto per protestare contro i matrimoni gay. Questa è la versione che la stampa, per esempio il Corriere della Sera, ha scelto di dare, incomprensibilmente. Perché è così necessario modificare i fatti? Perché la storia si deve piegare all’ultimo capriccio della cronaca?
Nel suo ultimo scritto, postato nella mattina di ieri sul suo blog, Venner spiega le ragioni del suo sconforto. E’ uno scrittore, uno storico, e un uomo di destra, della destra francese, che non è uguale a quella italiana. Nel cuore degli uomini come lui c’è sempre stata l’Europa: l’Europa come creazione unica e irripetibile dell’uomo, fondata sul cristianesimo, sul diritto romano e sulla forza delle stirpi germaniche.
Di questa Europa, depositaria del Bello, della Giustizia, della Civiltà, dei Diritti, dell’Umanesimo, la Francia era il fiore più perfetto, figlia primogenita della Chiesa, patria dell’université, protettrice del sapere, la vincitrice della Battaglia delle Nazioni, nel 733, quando Carlo Martello respinse un’avanguardia di Mori.
Gli uomini come Venner hanno assistito, negli ultimi decenni, allo sgretolarsi dei fondamenti culturali, sociali, etnici e antropologici di questo miracolo che era l’Europa. La legalizzazione dei matrimoni gay è solo un episodio, e non certo il più importante, di questa dissoluzione.
L’ultimo post di Venner parlava di un blogger algerino, il quale commentando la nuova legge diceva, sarcastico, che tra quindici anni, quando la Francia sarà musulmana, quella legge sarà abolita. Le leggi inique si possono abolire, dunque. Ma solo per preparare un male ben peggiore. Così la pensava Venner. Filosofi, politici, preti – tutti, secondo lui, hanno lavorato alla dissoluzione.
Verso la fine del post, Venner auspica “gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere i sonnolenti, destare le coscienze anestetizzate e risuscitare la memoria delle nostre origini”.
In queste parole risiede il triste segreto della morte violenta di Venner. La sua speranza si appoggiava completamente alle conquiste dello spirito, all’esito della buona volontà, alle belle costruzioni dello spirito umano, magari anche di quello cristiano.
E’ questa la vera natura del nichilismo occidentale. Una sorta di disperazione per ciò che se ne va, per un passato che era più bello, più santo, più profondo di questo presente scialbo e insieme crudele.
Pensiamo a ciò che edifichiamo nel corso della vita, opere spesso importanti, e al rischio che corriamo sempre di identificarci con esse. Pensiamo se qualcosa dovesse obbligarci a una separazione da ciò a cui avevamo dedicato l’intera vita. Non ci sarebbe anche per noi la tentazione di ritenerci finiti, ormai inutili?
Perciò il gesto di Venner, tragico e spettacolare, ma non simbolico, appartiene in fondo alla stessa razza del mondo che intendeva combattere, appartiene alla storia della dissoluzione, della trasformazione senza requie, della corruzione senza rinascita vera, che non è la rinascita delle foglie a primavera ma quella che viene dal perdono.
Chi mai potrà dissolvere il perdono? Potranno distruggere la nostra vita, le nostre opere, ma non il dono di Chi sa amare anche la vita più distrutta, anche le macerie più fradice.
La sola opposizione al nulla non sta in quello che costruiamo, ma in una premessa, o in una promessa (“che sia per sempre”) che arde in noi nelle buone intenzioni che ci muovono e, spesso, anche in quelle meno buone, perché, come diceva Clemente Rebora, ed è proprio vero, “qualunque cosa tu dica o faccia c’è un grido dentro: non è per questo, non è per questo!”