Come evitare l’orrore di Londra in Italia?

L'assassinio di un militare inglese a Londra sembra assai più l’opera di due squilibrati che un attentato terroristico. Ma pone ugualmente molte domande. ROBI RONZA

Anche se allo stato attuale delle cose altre ipotesi non si possono ancora completamente escludere, l’assassinio di un militare inglese l’altro ieri a Londra – aggredito e ucciso per strada a colpi di arma bianca da due uomini di origine africana – sembra assai più l’opera di due squilibrati che un attentato terroristico. 

Tutto il loro comportamento dopo il gesto criminoso, video-registrato da alcuni presenti, compreso il dialogo di uno di loro con una coraggiosa passante accorsa a tentare di soccorrere la vittima, pare confermarlo. Pur se tuttavia, come anche noi pensiamo, il tragico episodio si deve a un momento di furore di due pazzi, ciò non spiega tutto. Dei pazzi possono scagliarsi contro delle persone in carne ed ossa vedendo dissennatamente in esse la personificazione dei fantasmi che agitano le loro menti malate, ma i criteri con cui le scelgono sono il riflesso di luoghi comuni, di problemi irrisolti, di frustrazioni diffuse dell’ambiente e della società in cui vivono. In questo senso il tragico episodio di Londra è un evento patologico, ma va visto anche come un sintomo clamoroso e terribile del fallimento del processo di integrazione in Gran Bretagna degli immigrati non-europei. Un fallimento che d’altro canto si riscontra pure nel resto d’Europa, seppur con gradi e intensità diversi. 

L’assassinio dell’altro ieri a Londra viene ad aggiungere un ulteriore anello a una catena di delitti e di disordini che ormai da anni si sta purtroppo allungando non solo in Gran Bretagna ma anche in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania e così via. Non deve sorprendere che gli autori di questi gesti efferati siano di regola figli di immigrati, nati e cresciuti in Europa, e all’apparenza del tutto integrati nei Paesi di nascita. C’è infatti una diversità radicale tra loro e i loro genitori, ma tendenzialmente in senso opposto a quello che molti pensano. 

Ovvero i secondi, proprio perché meno integrati, sono assai meno a disagio dei primi. Gli immigrati di prima generazione sono cresciuti e si sono formati in un contesto comunque più difficile di quello in cui sono poi venuti ad inserirsi. La loro pietra di paragone è la terra d’origine, rispetto alla quale in Europa stanno comunque meglio e godono di diritti, di servizi e di garanzie inimmaginabili là dove avevano vissuto prima di emigrare. In linea generale non gli importa molto di essere anche alla base della piramide sociale del Paese di immigrazione, dal momento che ciò equivale in ogni caso a una posizione molto più alta di quella che avevano e hanno nel Paese di nascita. 

Per i loro figli, i cosiddetti immigrati di seconda generazione, la situazione è radicalmente diversa. Per questi ultimi la pietra di paragone è il Paese ove sono nati e cresciuti e non quello dei genitori. Inoltre sono del tutto integrati sul piano linguistico, essendo ormai la lingua locale la loro vera lingua “materna”. Caso mai infatti è la lingua di casa che è divenuta per loro “lingua seconda”. Paradossalmente però quanto più la loro integrazione formale è completa, tanto più forti sono il loro svantaggio se non la loro esclusione in un Paese come la Gran Bretagna (ma lo stesso si potrebbe dire della Francia o di altri) dove esiste una grande quantità di ostacoli di fatto alla mobilità sociale effettiva di queste persone. Il “cocktail” di integrazione e di esclusione che ne deriva provoca delle situazioni di disagio sociale di massa di cui il feroce assassinio a sangue freddo dell’altro ieri a Londra è appunto un’esplosione patologica ma comunque sintomatica.

Da noi il problema non si è ancora posto in termini tanto drammatici in primo luogo perché in Italia quella dei figli degli immigrati non è ancora una realtà di massa. In secondo luogo perché  la nostra è malgrado tutto una cultura più accogliente dell’altro; e in terzo luogo perché, diversamente da quanto molti amano enfatizzare, l’immigrazione in Italia proviene in maggioranza assoluta da Paesi di tradizione cristiana per lo più cattolica e poi anche ortodossa; quindi prossima alla nostra. Non possiamo però illuderci che  il processo di assimilazione possa procedere all’infinito senza intoppi in assenza di una politica adeguata, che non oscilli come adesso tra l’inadeguatezza da un lato e dall’altro l’astrazione ideologica di chi premendo per un’accoglienza indiscriminata e senza regole pone in realtà le premesse per reazioni di rigetto.

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