Che i conti non tornassero era chiaro a tutti: i dati del 5 per mille 2011, resi noti a maggio dall’Agenzia delle Entrate evidenziavano un paradosso difficile da camuffare: a fronte di un record storico di firme (che hanno sfiorato i 17 milioni, al netto di quelle a Irpef zero) veniva annunciato un calo della somma complessiva destinata alle organizzazioni: poco più di 390 milioni. La cosa poteva essere spiegata solo in due modi: o un crollo del gettito Irpef degli italiani determinato dalla crisi, o il 5 per mille era stato surrettiziamente ridotto di percentuale. Ovviamente nessun elemento portava a rendere credibile la prima ipotesi. Quindi restava vera, anche se sempre taciuta, la seconda. 

Nessuna spiegazione dall’Agenzia delle Entrate, nessuna dal ministero dell’Economia. C’è voluta una battaglia mediatica ingaggiata da Vita non profit, per stanare finalmente il Governo. Ieri infatti il viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha risposto ad un’interpellanza che Luigi Bobba, ex presidente delle Acli e oggi deputato, aveva presentato sulla base dei numeri elaborati da Vita. Ebbene, Fassina ha ammesso che gli importi sono stati ricalcolati sulla cifra stanziata dalla Finanziaria approvata il 29 dicembre 2010, di 400 milioni di euro. In sostanza Fassina ha ammesso che l’importo totale ottenuto in base alle scelte operate dai contribuenti corrispondeva a 487.850.599,97 euroe chelo “scippo” è pari a 92 milioni di euro. La stessa cosa era avvenuta con il 5 per mille dell’anno prima: 80 milioni cancellati in quanto era stato superato il tetto (ma solo ieri è arrivata l’ammissione).

Ci sono alcune considerazioni da fare davanti a quanto accaduto. La prima è questa: milioni di contribuenti, firmando la casella del 5 per mille, firmano il falso: paradossale che questo avvenga proprio sulla dichiarazione dei redditi, strumento delicatissimo in cui tutti i cittadini vengono chiamati a mettere numeri con la massima trasparenza. Il 5 per mille infatti non è affatto un cinque, ma ormai è molto più vicino al quattro.

La seconda considerazione riguarda il malcostume della politica e dell’amministrazione dello Stato di non dare mai risposte su questioni sollevate dalla società civile. Un malcostume che spesso si connota come vera e propria arroganza. Nessuno lo dice, ma il 5 per mille di fatto viene visto come una gentile concessione del potere, di fronte alla quale è bene non esagerare nelle pretese. 

La terza considerazione è conseguenza di quest’ultima: diventa sempre più urgente la stabilizzazione del 5 per mille, che com’è ben noto, dopo essere stato introdotto nel 2006, è sempre rimasto una misura precaria, in balia dei capricci della politica e della burocrazia. 

Certo, c’è da chiedersi come sia possibile che una misura forte del consenso trasversale di tutte le forze politiche non sia ancora diventata legge. Si mettono in campo le difficoltà dovute alla crisi: ma è una ragione che non tiene, visto che poi, ogni anno, il 5 per mille è stato riproposto, anche per la pressione di migliaia di organizzazioni in prima linea nel sociale e nella solidarietà. 

La ragione vera è forsa più profonda: il 5 per mille è una misura vera di sussidiarietà fiscale, grazie alla quale il cittadino contribuente può decidere liberamente la destinazione di quella piccola percentuale delle proprie tasse. Lo Stato per una volta deve limitarsi a fare l’ufficiale pagatore, controllando solo che le regole siano state rispettate. Forse il problema è proprio questa minima cessione di “sovranità” cui lo Stato è costretto, a determinare una non dichiarata ostilità. Una libertà minima, ma potentemente simbolica: per questo il 5 per mille vale tantissimo, anche se ieri abbiamo ufficilamente saputo che è stato ridotto a un 4 per mille.