Non voglio più ripetere il suo nome. È morto, riposi in pace, smettiamo di chiamarlo. Aveva l’età dei miei figli. Aveva vissuto con suo padre. Era italiano, e un giorno si convertì all’islam, si fece crescere la barba, indossò il caffetano, leggeva il Corano ma non era felice lo stesso. L’imam l’aveva detto, che non era un uomo religioso. Non era lì per la religione. Era lì – chissà – per i discorsi: aveva imparato che certi discorsi possono farci conoscere il lato nascosto della nostra rabbia, della nostra insoddisfazione. Possono farci individuare nuovi carnefici, nuove vittime da vendicare.
Poi un altro giorno fu ucciso, in Siria, e questo lo sappiamo tutti. Ma a me di tutto questo rimangono in testa solo la barba e il caffetano. Quel tipo di barba lì, mi capite? Non una barba occidentale. Eppure era italiano, era un ragazzo di Genova, non un siriano. La sua morte rende definitivo un malessere profondo che, forse, è molto più diffuso di quanto sembri.
Quel ragazzo si era travestito, entrando nei panni di qualcun altro, pensando i pensieri di qualcun altro, vivendo la vita di qualcun altro. In questo modo non si può essere felici, perché per essere felici bisogna che le parole che diciamo siano le nostre parole, e i pensieri i nostri pensieri.
Ma è proprio questo che mi fa pensare che il male sia molto più diffuso, e che i cinquanta italiani che combattono tra i ribelli fondamentalisti islamici siano solo un pezzetto di una realtà assai più grande.
Ho saputo che nella prossima stagione teatrale il grande attore Franco Branciaroli metterà in scena uno dei capolavori di Luigi Pirandello, Enrico IV. Il dramma parla di un uomo che a un certo punto, non si sa per quale ragione, comincia a credersi (o a fingere di credersi) l’imperatore Enrico IV. Ben presto l’uomo, che in realtà pazzo non è, si accorge che la finzione ha i suoi vantaggi, come quello di dargli un posto nel mondo, un ruolo.
Che differenza c’è, ci chiediamo pirandellianamente, tra credersi un re ed esserlo davvero? Se il re è solo un ruolo, una parte da recitare, le differenze non ci sono: al massimo cambiano i contratti e gli ingaggi.
Il travestimento ci dà un posto e un ruolo senza pretendere che diciamo chi siamo veramente. Non è un bel vantaggio? Tutto questo non dà la felicità, ma può placare l’inquietudine di non sentirsi mai la terra sotto i piedi, quell’instabilitas loci (incapacità di stare in un posto) che fa desiderare di essere sempre da qualche altra parte.
Con questa condizione abbiamo tutti a che fare, poco o tanto. È il segno di una grande Assenza: da lì, prendendo atto di quell’assenza, si può partire per conquistare la propria vera vita. Ma si possono cercare anche soltanto soluzioni-tampone, palliativi. Da qui nasce il bisogno del travestimento, del camuffamento, del ruolo: dal bulletto che fa il macho perché ha visto troppi film al dirigente arrogante e presuntuoso che si impone una maschera che a poco a poco modifica il suo stesso carattere (“pensa, era così gentile, e adesso…”).
Ma c’è anche chi, forse più vulnerabile a un malessere sociale, finisce per sprofondare nel proprio travestimento, fino a confonderlo con la verità delle cose. Alla radice di tutto questo si ha l’impressione che ci sia una certa presunzione: il fatto di crederci “qualcosa” e di tener duro su questo punto fino allo spasimo.
A questo atteggiamento si oppone la semplicità del cuore: solo la semplicità ci insegna che quella realtà che cerchiamo di evitare fino alla nevrosi e al malessere si può trasformare nella più grande delle amiche. Amare la realtà. Come diceva Giovanni Testori vent’anni fa, poco prima di morire. Allora come oggi, questa è la ricetta, il vero elixir della salute.