La dichiarazione di incostituzionalità della Corte Suprema degli Stati Uniti del Defense of Marriage Act in quanto “deprivazione di libertà eque” in contrasto con il quinto emendamento sulla difesa delle libertà individuali, è un grave errore di logica giuridica, oltre che una lesione dalle conseguenze difficilmente calcolabili ad un istituto etico della società, prima ancora che giuridico, il matrimonio; istituto da sempre fondativo e strutturante un’ordinata convivenza sociale, le cui basi “naturali” (il legame eterosessuale orientato alla procreazione) riconosceva già il diritto romano, alla luce della semplice ragione naturale, e al netto di ogni illuminazione religiosa.
Tanto per segnalare quanto sia fuorviante assegnare alla “credenza religiosa” il patrocinio della limitazione alle coppie eterosessuali dell’istituto matrimoniale, e non piuttosto al semplice buon uso della ragione. Ed è questo buon uso della ragione, della ragionevolezza e della sensatezza della norma, che è venuto meno nella pronuncia della Corte Suprema statunitense. Anche in questo caso, come già in Francia, nell’assunto che le coppie eterosessuali e le coppie gay non siano discriminabili in base all’orientamento sessuale, nei loro diritti per accedere all’istituto familiare del matrimonio, che ogni persona avrebbe diritto a metter su (e questa sarebbe la presunta discriminazione da rimuovere), assistiamo ad un uso ideologico e improprio, in diritto e in fatto, di una transitività analogica di ciò che va riconosciuto a coppia, famiglia, matrimonio, che sono realtà affatto diverse, e richiederebbero istituti giuridici diversi, anche quando si voglia riconoscere a chi vi sia coinvolto (nella coppia, nella famiglia, nel matrimonio) una base comune, più o meno ampia, di eguali diritti.
Al contrario, ciò che discende dalla pronuncia della Corte Suprema Usa è una sorta di “neutralizzazione” familiare dell’orientamento sessuale nella e tramite la famiglia, al fine di poter riconoscere eguali diritti ad eguali famiglie, riducendosi il legame alla pura affettività. Il che appunto non è, perché il legame di coppia, nelle sue basi affettive e sessuali, non è la famiglia. La famiglia è un legame sociale diverso dalla coppia affettivo-sessuale; tant’è che spesso fattualmente prescinde dalla presenza in essa di un legame di coppia affettivo-sessuale. Facciano o no famiglia, la pregnanza della differenza, anche per rispetto al dato esistenziale che vi si rappresenta, tra le coppie gay e le coppie eterosessuali resta tutta in piedi.
E l’istanza di uno stesso istituto giuridico di protezione sociale, il matrimonio, per legami di coppia differenti, non ha quindi quel fondamento antidiscriminatorio che pretende. Né ci si può appellare per questa estensione del matrimonio alle coppie gay ai diritti della persona singola, perché il matrimonio è istituto giuridico che tutela le persone nella loro associazione in vista di un terzo, il figlio; cioè la loro naturalità procreativa, non la loro singolarità desiderante.
All’origine della decisione della Corte Suprema Usa c’è per altro la richiesta di una tutela patrimoniale (vedersi riconosciuti, all’atto della successione ereditaria, gli stessi benefici fiscali previsti dalla legge federale per le coppie eterosessuali legalmente sposate) da parte di una signora di New York legalmente sposata a Toronto in Ontario con un’altra donna, deceduta, e da cui aveva ereditato. Questa tutela poteva, e potrebbe, anche essere prevista – come ogni altro beneficio tributario, sanitario, pensionistico, che si volesse riconoscere – in via ordinaria senza equiparare il matrimonio eterosessuale a quale che sia forma legalmente riconosciuta e tutelata di convivenza omosessuale.
Anche per questo la pronuncia della Corte Suprema Usa “trasuda”, al di là del merito giuridico, un assunto ideologico e politico (quattro giudici “democratici” contro quattro giudici “repubblicani”, con la contesa decisa dal nono giudice che si è schierato con i democratici) estremamente pericoloso, affidando la sopravvivenza di istituti etici, prima ancora che giuridici, della società che hanno basi socio-biologiche e densità antropologica di lungo periodo, ad equilibri decisionali per loro natura friabili. Equilibri che rispondono alla congiuntura politico-ideologica del momento, più che − come dovrebbero − alla riflessività di un diritto che nasca dalle cose come sono, e appaiono ad una spassionata analisi razionale, e non come sono avvertite, con forza più o meno gridata, da questo o quello “sentire” sociale che vi sia coinvolto.
Una decisione così delicata, come quella presa dalla Corte Suprema Usa, che ha fatto parlare il Cardinale Dolan di “decisione tragica”, e con buone ragioni, non meritava davvero il tweet di Obama “Love is love”. Risolve, e crede di eludere, con una battuta un problema di verità, delle cose e dei sentimenti delle persone, che una sentenza sbagliata non farà tacere. Se ne poteva fare a meno.