Il fallimento di Obama

A poco più di quattro anni da quando il 4 giugno 2009 Obama pronunciò il suo discorso davanti agli studenti del Cairo, risulta con chiarezza il fallimento della politica Usa. ROBI RONZA

A poco più di quattro anni da quando il 4 giugno 2009 venne pronunciato dinnanzi a un pubblico di studenti delle maggiori università del Cairo, che cosa resta del discorso di Barack Obama e delle speranze che aveva voluto suscitare in particolare con la frase, subito divenuta famosa, “Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto”? Purtroppo resta ben poco, per non dire nulla.

Il gesto era stato clamoroso, e senza dubbio ben preparato e ben gestito da un punto di vista mediatico. Ancora una volta però era stato nel medesimo tempo un altro segno del malaugurato intreccio di grande forza mediatica (e militare) e di grande debolezza culturale che non da oggi caratterizza la politica estera americana. Una debolezza più che mai rilevante quando la super-potenza si trova alla prese con una situazione così complessa come quella del vicino e medio oriente, insomma del levante. 

In sostanza gli Stati Uniti non sono altra cosa rispetto a noi europei, che insieme a loro costituiamo il grosso dell’occidente. Nel mondo globalizzato in cui viviamo siamo più che mai sulla stessa barca. In ultima analisi le loro sconfitte finiscono per diventare anche le nostre. Quindi non possiamo che dispiacerci di questo fallimento, e piuttosto domandarci che cosa avremmo potuto, e che cosa ancora potremmo fare per fornire un contributo positivo alla soluzione dei problemi-chiave della politica internazionale del nostro tempo, tra gli altri in primo luogo il confronto tra occidente e islam. 

“America e islam non devono essere in competizione” poiché “condividono principi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani”: da queste parole del discorso di Obama, che seguivano immediatamente la frase citata più sopra, emerge con chiarezza il tremendo limite dell’idea che il presidente americano si fa di tale confronto. Islam e Stati Uniti sono due realtà tra loro incommensurabili: la prima è una fede e una cultura, i secondi sono una potenza politica. Il grande problema per l’islam non è il confronto con gli Usa. È il confronto con l’occidente e con la realtà contemporanea in quanto principalmente forgiata dalla cultura occidentale. In questo quadro gli Usa rilevano soltanto in quanto sono la maggiore potenza occidentale del momento, ma il problema è più grande di loro da ogni punto di vista. Non riguarda soltanto Washington, e non riguarda soltanto la sfera della potenza politico-militare. Ha ben più ampie dimensioni che attengono all’occidente nel suo insieme, e a tutti i suoi attuali primati, innanzitutto quelli scientifici, culturali, sociali. 

Tutti questi primati hanno delle radici che l’occidente oggi ama ignorare, ma che a chi guarda dall’esterno sono evidentissime: si tratta delle radici cristiane. È infatti grazie a tali radici che in occidente si sono create le condizioni (uno dei cui motori principali è il principio di laicità, di tipica matrice cristiana) dalle quali è venuto il suo straordinario sviluppo culturale, scientifico e sociale. Poi di tale grande vantaggio l’occidente ha anche spesso abusato, ma questo è un altro problema. 

Si assiste perciò a questa clamorosa contraddizione: mentre ad esempio Barack Obama si sforza di porre quale termine di confronto i valori fondativi degli Stati Uniti nella loro versione più secolarizzata (peraltro piuttosto lontana da quella originaria), l’islamismo terrorista prende di mira l’occidente nel suo insieme denunciando e scagliandosi contro le sue radici cristiane. Paradossalmente l’islamismo terrorista finisce così a modo suo per porre in luce proprio ciò che l’ordine costituito dell’occidente contemporaneo pretende di negare.

Sarebbe tuttavia ingeneroso far carico al solo Barack Obama degli attuali insuccessi della politica americana nel levante. Di suo Obama ci ha messo quell’orizzonte culturale radicalmente debole di cui si diceva. A tale limite se ne aggiunge però anche un altro che non è particolarmente suo ma appartiene alla cultura statunitense in quanto tale: si tratta della difficoltà a destreggiarsi in situazioni in cui la linea di demarcazione tra  gli “amici” e i “nemici” non è ben chiara, o comunque non può venire stabilmente demarcata nemmeno a viva forza. A tutto questo si aggiunge infine un dato di fatto: pur continuando ad essere senza rivale alcuno l’unica super-potenza alla scala planetaria, gli Stati Uniti sono non più nella fase aurea bensì in quella argentea della loro supremazia globale. Non possono più stare per così dire al massimo numero di giri su tutti gli scacchieri strategici del mondo. Dovendo scegliere hanno scelto di presidiare innanzitutto il Pacifico e l’estremo oriente, e di ridurre invece la loro presenza altrove, e in particolare nel Mediterraneo. 

Con i limiti di cui si diceva e per di più essendo in (relativa ma reale) ritirata, anche per un brillante presidente come Obama essere molto brillanti diventa molto difficile. Occorrerebbe allora, diciamolo ancora una volta, una ripresa di ruolo dell’Europa, ma per questo sarebbe necessaria un’Unione Europea che non si riducesse, come oggi accade, a essere soltanto un club di vecchie zitelle.

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