Ho visto Jesse Jackson piangere, ho visto il reverendo Jesse Jackson piangere in televisione. E’ stata la notte in cui Barack Obama fu eletto presidente degli Stati Uniti e l’ho visto piangere in televisione senza nessun sforzo per controllarsi.
Un nero era stato eletto Presidente! Non ci poteva credere. I sondaggi prima delle elezioni indicavano questa possibilità, ma per i veterani delle grandi battaglie per i diritti civili degli anni ’60 e ’70 rimaneva qualcosa di quasi inconcepibile. Jesse Jackson, allora un giovane che iniziava la sua vita da adulto, era presente all’inizio della battaglia contro la segregazione. Jesse Jackson ha quasi la mia età e, anche se non mi è stato possibile partecipare personalmente a quei grandi eventi, ho sostenuto queste battaglie per quanto ho potuto.
Ricordo quando, alcuni anni fa, incontrai Jesse Jackson nella sacrestia di una chiesa cattolica, con i paramenti da predicatore protestante, in procinto di predicare a una Messa per i manifestanti che cercavano di far traslocare una base della Marina militare da Porto Rico. Mi ricordo come mi sono sentito nell’essere con un uomo che era sul balcone del motel a Memphis, quando fu assassinato Martin Luther King Jr. Ero di fronte a un testimone di una causa che costituiva un’esperienza formativa per tanti di noi.
Nella notte in cui Barak Obama veniva eletto Presidente, io ho visto piangere il reverendo Jesse Jackson.
Non vi è dubbio che stesse piangendo perché la vittoria di un afroamericano era più di quanto fosse lontanamente immaginabile solo qualche decennio prima. Probabilmente ha pensato: “Cosa di più è ancora possibile? Possiamo osare di sognare che è cominciata la fine del razzismo americano?”
Qualche giorno fa ho visto di nuovo le lacrime negli occhi di Jesse Jackson e nella sua voce vi era tristezza, anche una rabbia repressa. Gli era stata data la risposta circa la profondità del razzismo americano. Presidente afroamericano o no, anche dopo la inattesa rielezione di Obama, il razzismo non è scomparso dal cuore di tanti americani. La mancanza di conversione e pentimento è stata, però, coperta dalla “correttezza politica”.
Quanto è successo viene riassunto così da Politico: “George Zimmerman è stato dichiarato non colpevole di omicidio di secondo grado per la morte di Trayvon Martin da una giuria di Sanford, Florida. Zimmerman era stato accusato di omicidio di secondo grado, ma la giuria avrebbe anche potuto scegliere l’accusa di omicidio colposo, in un caso di rilievo che ha attratto l’attenzione della nazione. La giuria, composta di sei donne, ha deliberato per più di 15 ore per due giorni.”
Il processo è stato complicato e tecnico, spesso simile a un gioco di battute tra brillanti avvocati, per la gioia dei media. Sono finiti quasi dimenticati i due giovani, la cui vita è cambiata con quel loro incontro il 12 febbraio 2012, quando il giovane nero è stato colpito a morte dall’aspirante poliziotto bianco.
Comunque, i contorni del caso sono ormai noti. Io vorrei solo far notare che se la giovane vittima fosse stata bianca – o vestita in modo diverso – forse non avrebbe spaventato Zimmerman fino a farlo uccidere. Trayvon è morto perché era nero.
Jesse Jackson, insieme ad altri leader del movimento per i diritti civili sono apparsi sui media e in internet per invitare alla calma. La causa per i diritti civili non è finita, la vittoria è solo iniziata.