“Io so che il Re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una mano forte”. Con queste parole Dio annunzia a Mosè la durezza del cuore del Faraone e la lotta che Israele dovrà affrontare per ottenere dal Sovrano d’Egitto il permesso di lasciare il paese e di essere finalmente libero. L’estate, con la sua calura e i ritmi decisamente più blandi che inevitabilmente l’afa e il sol leone impongono, è da sempre il periodo più adatto per il riposo. Gli antichi lo sapevano bene e l’Imperatore Augusto coniò addirittura un giorno di astensione dal lavoro in suo nome, il cosiddetto giorno di “feria Augusti”, poi divenuto “ferragosto”. Questo giorno, collegando tra loro festività pre-esistenti, dava vita ad un periodo discretamente lungo di riposo e di festa agreste, durante i quali i lavoratori dei campi erano pagati ugualmente e in cui ci si godeva – finalmente – un tempo di tranquillità e di gioia. 

Normalmente noi usiamo chiamare questo periodo “vacanza”, utilizzando il verbo latino “vaco” che significa “sono libero da”. Esso, però, ha un secondo significato che spiega meglio lo scopo e il fine della vacanza: non solo “sono libero da” ma anche “mi dedico a”. La vacanza, pertanto, non è un momento di disimpegno con la vita, ma un tempo che segna un affronto rinnovato e purificato con la nostra stessa esistenza. Il problema delle vacanze, quindi, non è da che cosa ci liberiamo, ma a che cosa ci dedichiamo. È in questo punto che ci viene in soccorso la Sacra Scrittura. 

Nel mondo patristico, mi si scuserà per l’eccessiva semplificazione, c’erano generalmente due grandi filoni interpretativi del testo sacro: uno più legato alla lettera dei brani esaminati (facente riferimento per lungo tempo alla comunità cristiana di Antiochia) e uno più connesso con il metodo dell’allegoria (e intrinsecamente riferito alla comunità di Alessandria d’Egitto). In questo secondo grande filone il testo non perdeva il suo valore storico, ma assumeva una profondità nuova che – in qualche modo – incideva più autenticamente sulla vita. Se l’Esodo – pertanto – era il libro in cui si narrava la liberazione di Israele dal potere del Faraone per mano di Mosè, esso – nell’interpretazione allegorica – diventava il libro in cui si narrava la liberazione dell’uomo dai finti Re che albergano nella nostra anima. 

Nell’esegesi allegorica, insomma, era il mondo interiore dell’uomo il vero protagonista della Bibbia e dedicare del tempo a se stessi significava prendersi cura della propria anima. Se l’anno sociale è il tempo dell’esteriorità, il tempo della lotta contro i nemici che percepiamo fuori di noi (una lotta a volte estenuante e disperata), il tempo delle vacanze deve diventare il tempo in cui guardiamo con più verità il nostro Io e in cui cogliamo con vera umanità quali sono i veri nemici della nostra vita: non i Faraoni che stanno fuori di noi, ma i Faraoni che stanno dentro di noi e che ci impediscono di partire per la grande avventura dell’Io, l’avventura della libertà. 

Recentemente un amico ha sfidato molti di noi cristiani a smetterla di cercare di capire chi ha ragione nelle diverse circostanze della vita personale, politica o sociale. La ricerca della posizione corretta e pulita − infatti − finisce sempre per identificare in qualcun altro (o in qualcos’altro) fuori di noi il Faraone da cui liberarsi per vivere. Il punto centrale del dramma umano non riguarda mai “chi ha ragione”, ma “come si fa a vivere questa cosa”, questa circostanza presente. In questo nuovo affronto del dramma umano l’intelligenza percepisce subito che ciò che ci impedisce di vivere un particolare momento storico, o individuale, è un Faraone − un Sovrano − che sta dentro di noi e che non ci lascia partire. 

Per questo il tempo dell’estate è un tempo prezioso: per poter cogliere, con umiltà, qual è il Re che ci impedisce di abbandonarci davvero alla Presenza buona di Cristo. Ognuno ha il Suo. Quel che è certo è che fermarci a dire il suo nome non ci porterà da nessuna parte. Il passo più grande, infatti, non sta mai nell’analisi − anche psicologica o spirituale − dei nostri limiti, ma risiede sempre nel gesto supremo della libertà che è la preghiera, l’atto con cui ci inginocchiamo e chiediamo a Dio che una mano più grande ci liberi dal male e ci restituisca alla vita vera dei Figli di Dio. Egli vince il male. Non le nostre analisi o i nostri tentativi nobili. 

Il tempo dell’estate è il tempo della libertà, della consapevolezza nuova di noi stessi come esseri bisognosi − mendicanti − la Sua Presenza. Solo questa Presenza vince e ci libera. Questo Mosè lo sapeva bene. E anche il Faraone, nel giro di qualche mese, dovette impararlo sulla propria pelle.