Il plauso del presidente del Consiglio, Enrico Letta, che lo ha indicato quale modello per tutto il Paese, ha fatto assumere un particolare rilievo all’accordo tra società di gestione di Expo 2015 e sindacati sottoscritto l’altro ieri a Milano al termine di trattative durate alcuni mesi. L’accordo, salutato come “storico”, lo diventerà effettivamente soltanto se aprirà la strada ad analoghi accordi alla scala nazionale. Di suo infatti riguarda 800 posti (50 entro la fine del 2014 e il resto nel 2015), ossia una realtà infinitesimale rispetto alle dimensioni del mercato del lavoro italiano. Di questi 800 posti 300 sono contratti a tempo determinato e 195 stages rimunerati fino a un massimo di 516 euro al mese più buoni-pasto di 5,29 euro al giorno.
Questi i fatti separati dalle opinioni. Si tratta comunque di assunzioni che, ha spiegato il Commissario unico dell’Expo Giuseppe Sala, non si sarebbero potute fare in base alle norme ordinariamente vigenti. Non c’è motivo di non credergli, ma ciò dimostra a contrariis in che misura le norme vigenti, siano esse leggi o contratti nazionali di lavoro, costituiscano oggi un ostacolo primario al superamento della crisi della nostra economia. Inoltre in forza di tale accordo la società di gestione, e altre aziende in grado di addurre la “causale Expo”, potranno ricorrere a contratti a termine fino all’80 per cento dell’organico; contratti che, in deroga alle norme vigenti, potranno durare anche soltanto 6 mesi. Un’altra deroga alle norme vigenti riguarda l’apprendistato che all’ombra della “causale Expo” potrà durare da un minimo di sette mesi a un massimo di un anno.
In qualunque altro moderno Paese industriale chi viene assunto per qualcosa che è connesso ad eventi a durata prestabilita ha un contratto la cui durata è prestabilita correlativamente. Che da noi si debbano fare per questo degli specifici accordi in deroga, e che la cosa sia così straordinaria da meritare la citazione e il plauso del capo del governo, la dice lunga sulla situazione in cui siamo. Per di più nella realtà dei fatti, in tutto il vasto mondo delle piccole imprese e anche altrove (pubbliche amministrazioni incluse) ci sono miriadi di persone che lavorano, quando lavorano, in base a contratti legati a progetti; persone che poi magari restano disoccupate all’improvviso perché il progetto cui sono legate s’interrompe per cause del tutto estranee a loro.
Molto bene se nel caso dell’Expo, un evento più che mai sotto i riflettori, vengono date eque e realistiche soluzioni a problemi che in tale sede riguardano 800 persone (e buon per loro). Nel resto del Paese hanno gli stessi problemi, ma non ancora le stesse soluzioni, milioni di altri giovani e meno giovani lavoratori o aspiranti tali.
Se però in brevissimo tempo (diciamo entro 6 mesi) riforme del genere non diventano un dato di fatto alla scala nazionale, noi che siamo fuori del proverbiale Palazzo, dentro cui anche i sindacati storici stanno a pieno titolo, avremo tutto il diritto di sentirci presi in giro e di tirarne le conseguenze.
Ciò detto resta sempre aperto il problema, sin qui più che mai in ombra, del significato dell’Esposizione Universale di Milano 2015 e dei suoi contenuti. L’Expo importa innanzitutto non certo come causa occasionale per la soluzione di nostri problemi interni. E’ o sarebbe un’occasione davvero storica per ridare all’Italia centralità culturale nel tempo in cui viviamo; con tutto ciò che ne può conseguire anche su altri piani, quello economico compreso, ma solo come adeguata conseguenza. Di ciò tuttavia, nel mondo di quelli che contano, nessuno sinora sembra interessarsi molto.