A Oslo, la capitale norvegese, quando si accendono i falò di San Giovanni, il sole non raggiunge la mezzanotte, ma quasi: è a causa della vicinanza al Polo Nord. Fino alle 24 circa, una luce pallida e irreale illumina le persone che girano per le strade, gli angoli degli edifici e i paesaggi lontani. È come se volesse mostrare l’anima che gli abitanti “nascondono”, e che noi al Sud non vediamo se non a tratti. Anche questa luce che non vuole tramontare lascia intendere che ci sia qualcosa dietro le apparenze.
Il sole di mezzanotte di questi giorni a Oslo è quello che illumina molti quadri di Munch. La città ospita due grandi mostre sul pittore per celebrare il 150° anniversario della sua nascita. Sulle donne sul ponte, o su quelle che ballano e negli altri soggetti dipinti splende lo stesso sole che c’è nella strade di quella che una volta si chiamava Christiania.
Munch è uno dei pochi artisti contemporanei che si sottrae al gioco puramente formale e alla decostruzione che colpisce molti pittori europei a partire dal postimpressionismo. Il norvegese sapeva cosa stava succedendo nella Francia della sua epoca e sapeva anche di essere capace di padroneggiare le nuove “tecniche”. Tuttavia, ha creato un suo stile che alcuni hanno definito simbolista: le forme, le grandezze e i colori sono sempre al servizio di una grande storia.
Nella Norvegia postmoderna, simbolo della tolleranza verso gli omosessuali, paradiso del welfare e con una società tra le più secolarizzate d’Europa (solo l’1% della popolazione va in chiesa), cittadini e turisti stranieri fanno la fila per vedere “L’urlo”. E si trovano davanti “Il fregio della vita”, una serie di dipinti che il pittore ha ripetuto più volte. Lì c’è quasi tutto: il possesso, l’esaltazione e la rovina dell’amore; la malinconia nell’osservare un cielo infinito; l’inevitabile domanda che accompagna il passare del tempo; il grido contro un orizzonte ondulato; la morte ritratta in una stanza, nel gesto di un personaggio maschile che cerca con tutta la sua umanità una consolazione, che non trova, in una giovane ricurva. Ogni quadro presenta questo linguaggio universale che si chiede, nella realizzazione di ogni passo, com’è possibile vivere.
Munch dipinse “Il fregio della vita” tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, prima della Prima guerra mondiale, quando le grandi convinzioni di un Occidente cristiano sembravano stare in piedi. Quando sembrava che l’edificio dei valori – tradotti nella legge naturale – della cristianità occidentale potessero durare ancora un millennio. A Munch, per quello che ci dicono le sue opere, tutto questo non bastava.
Un secolo dopo questo edificio è crollato. Una delle ultime pietre è stata quella del matrimonio, crollata grazie alle pressioni di Obama sulla Corte suprema per il riconoscimento dei matrimoni omosessuali negli Stati Uniti. Già lo aveva detto Peguy, contemporaneo di Munch: un cristianesimo senza Cristo non può durare.
Il Fregio resta lì, sotto il sole di mezzanotte, mostrando i misteriosi colori dell’esistenza nella società più secolarizzata che sia mai esistita. Evidenziando la sfida che Peguy ha ben definito: fare il cristianesimo. Non con dottrine, principi o leggi, ma con il materiale della vita.