La sorpresa e lo sconcerto dei Paesi europei e di Washington di fronte ai clamorosi sviluppi della crisi politica egiziana dimostrano ancora una volta che in Occidente si continua a non capire, o meglio si pretende di ignorare, ciò che sul posto si vede ad occhio nudo, ovvero che in Egitto le forze armate sono la fondamentale istituzione politico-economica del Paese. E ciò non solo in base all’ovvio potere che loro deriva dal fatto di avere le armi in mano, ma anche perché c’è una parte consistente del popolo egiziano che le considera uno strumento di modernizzazione e un canale di mobilità sociale spesso più affidabile e relativamente meno corrotto dei partiti e dell’amministrazione civile. 



Anche se non mancano corrispondenti occidentali al Cairo che non amano farlo sapere, questa è la realtà dei fatti. Si può esserne felici o no, ma così stanno le cose, e prescinderne non è di aiuto per nessuno. E ciò non soltanto grazie al complesso di fabbriche militari che danno lavoro a decine di migliaia di persone, ma anche perché in un Paese come l’Egitto le forze armate costituiscono pure il maggior luogo di coagulo di competenze tecniche e di modelli organizzativi “moderni”. Un posto dove anche il “figlio di nessuno” può sperare di salire se non tutta la scala sociale quantomeno un certo numero dei suoi gradini; e può sognare che i suoi figli, se bene indirizzati, ne potranno poi salirne altri. 



I ragazzi e le ragazze di piazza Tahrir, e delle altre piazze simili, che fanno la gioia degli operatori dei grandi canali televisivi occidentali manifestando e presidiando per giorni e giorni luoghi ben definiti, e che è facile intervistare perché non di rado parlano un po’ di inglese e magari anche di francese e di italiano, sono espressione di nascenti ceti medi urbani, di cultura occidentalizzante, numerosi in valore assoluto, ma esigui in termini relativi in un vasto Paese la grande maggioranza dei cui abitanti vive in campagne, in piccoli centri e in periferie remote. Riempiendo due o tre grandi piazze del Cairo e di Alessandria quanto basta per riempire poi gli schermi televisivi dell’Egitto e di tutto il mondo, fanno solo la parte del detonatore di un’esplosione che poi regolarmente li travolge. È già successo e succederà ancora. 



Senza escludere che per molti di loro quella di una democrazia compiuta sia un’autentica speranza, sta di fatto che non sono questi i sentimenti predominanti nella maggior parte dei loro coetanei, che si sentono più garantiti dalla gerarchia delle forze armate che da istituzioni democratiche largamente imperfette nonché da riti elettorali che appaiono pensati più che altro per esigenze di legittimazione a livello internazionale. 

Questo spiega come mai l’altro ieri, 3 luglio, le Forze armate hanno tranquillamente potuto sospendere la Costituzione, deporre il presidente un anno fa democraticamente eletto, Mohammed Morsi, e nominare capo dello Stato al suo posto il presidente della Corte costituzionale, Adly Mahmud Mansour, con l’incarico di guidare il governo egiziano fino alla convocazione di nuove elezioni presidenziali. 

Beninteso, non avrebbero potuto farlo se Morsi, espressione dei Fratelli musulmani, si fosse dimostrato capace di affrontare efficacemente la crisi economico-sociale in cui l’Egitto è immerso. Siccome però non ci è riuscito, in fin dei conti in Egitto ben pochi si scandalizzano che Morsi sia stato messo fuori gioco non da un voto di sfiducia bensì da un intervento dell’esercito. Se in ciò non c’è nulla di sostanzialmente nuovo dal punto di vista del metodo, molto nuove risultano invece le motivazioni alla base di tale intervento, che attengono non più alla tradizionale sfera della sicurezza, dell’ordine pubblico, bensì a quella dello sviluppo e dell’ammodernamento dell’economia e della società egiziane, che implicano anche il ridimensionamento di un movimento islamista come i Fratelli musulmani. 

Quanto tutto ciò importa al nostro Paese? Tantissimo. Come infatti l’Egitto è il Paese più importante della riva sud del Mediterraneo, così l’Italia è il più importante tra quelli della riva Nord che gravitano esclusivamente su di esso. Diciamo ancora una volta che se finalmente i governi di Roma si liberassero della loro ingiustificata soggezione al Nord Europa e riuscissero a far scoprire il Mediterraneo come grande frontiera potenziale di nuovo sviluppo non solo dell’Italia ma dell’intera Unione europea,  allora  si aprirebbero nuove e promettenti vie d’uscita da una crisi che è comune, anche se da noi fortunatamente non ha (almeno per adesso) il carattere tumultuoso che assume in Egitto.