Il titolo del prossimo Meeting di Rimini è coraggiosamente preciso. La prima parola – «emergenza» – indica qualcosa di minaccioso che sta capitando e di fronte al quale occorre assolutamente prendere una iniziativa correttiva, pena il disastro. Tale emergenza non riguarda una generica umanità, una sfuggente natura umana, un inafferrabile umanesimo; no, riguarda l’«uomo». Dietro questa parola sta l’irriducibile singolarità di ogni specifico «io». È infatti questa elementare paroletta che oggi è in condizione emergenziale. Sembra paradossale, perché viviamo in un contesto culturale di esasperato soggettivismo, di egoismo sistematico; tanto che si moltiplicano gli appelli a dedicarsi un po’ di più alla solidarietà, a riscoprire l’empatia. Ma se leggiamo più attentamente, ciò che viene messo in discussione è proprio la specificità dell’io.

Acclamati scienziati e noti divulgatori scrivono tranquillamente sui quotidiani che l’io autocosciente è una illusione “metafisica”, che la volontà, la libertà, il gusto estetico, l’amore non sono espressioni di un «io» bensì provvisorie emergenze di collegamenti neuronali che un giorno la scienza chiarirà definitivamente nei loro meccanismi.

Del resto, non è forse una negazione dell’io nella sua definita unicità quella strana mania di abolire la diversità in nome dell’uguaglianza dei diritti? Sostenere, ad esempio, che la diversità sessuale è indifferente nella definizione della famiglia, della genitorialità, dell’identità stessa della persona significa decretare l’infinita mutabilità dell’io, cioè la sua ultima inconsistenza (e, quindi, manovrabilità da parte di chi può influire sulle sue decisioni).

Per non parlare dell’inquietante problema del futuro post mortem di questo io. Pur di non dover prendere in considerazione l’aborrita ipotesi che l’io abbia un’anima immortale – il che porrebbe un sacco di problemi; per esempio: da dove viene? chi l’ha fatta? -, ci si rifugia nell’ipotesi del ritorno degli elementi che costituiscono la persona nell’indistinto flusso della natura. Riaffiora, cioè, l’idea panteista, per la quale il valore ultimo è l’armonia del tutto -«pan» – e il male è appunto la separazione da questo tutto in cui consiste ogni individualità.

È la posizione di Thomas, l’ultimo rampollo della potente dinastia dei Buddenbrook raccontata da Thomas Mann; sentendo approssimarsi la morte trova un attimo di pace solo pensando: «Non è ogni uomo un errore, un passo falso? Di fra le sbarre della sua individualità l’uomo contempla disperato le mura massicce delle circostanze esteriori finché arriva la morte e lo invita al ritorno alla libertà». È la posizione della protagonista di Gita al faro di Virginia Woolf: «Perso l’io, si perdevano l’ansia, la fretta, l’inquietudine».

Quanto più pacificante è il grido di Giovanni Paolo II nel suo primo messaggio natalizio del 1978: «Se noi celebriamo così solennemente la nascita di Gesù, lo facciamo per testimoniare che ogni uomo è qualcuno, unico e irripetibile. Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni umane, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere e operare come un unico e irripetibile, allora tutto ciò glielo assicura Iddio. Per lui e di fronte a lui, l’uomo è sempre unico e irripetibile; qualcuno eternamente ideato ed eternamente prescelto; qualcuno chiamato e denominato con il proprio nome». «Col proprio nome»: nel tempo e nell’eternità.