Le cause prossime della crisi dello Stato italiano sono tante e varie, ma la causa profonda è una sola e, diversamente da quanto molti pretendono non ha niente di speciale e niente di personale: è solo un caso particolarmente acuto della crisi generale degli Stati moderni a gestione centralizzata, che stanno sprofondando sotto il peso di una spesa pubblica dilagante in modo sin qui incontrollabile. E che stanno trascinando con sé nel gorgo buona parte dell’economia mondiale. Poi c’è tutto ciò che la cronaca politica ci racconta ogni giorno, ma in ultima analisi si tratta di particolari.
Se così stanno le cose, e di ciò siamo ben convinti, come se ne può venir velocemente fuori? A nostro avviso con una scelta di fondo drastica ma possibile: puntando innanzitutto sulla responsabilità della persona invece che sulla presunta razionalità della macchina dello Stato. Giocando quindi subito e fino in fondo la carta della sussidiarietà. Sia chiaro: ci rendiamo perfettamente conto che non lo sta facendo nessuno, compresi quelli da cui ce lo si aspetterebbe. Ciononostante è l’unica carta vincente. E ogni giorno i fatti si incaricano di confermare che non ce ne sono altre. Sotto la fredda luce dei discorsi cartesiani del premier Letta il debito pubblico continua a crescere, l’economia nazionale continua a declinare; e con una pressione fiscale ormai attorno al 54 per centro del prodotto interno lordo, tale cioè da schiacciare sia l’economia produttiva che l’innovazione, si continuano a cercare nuove vie oscure per introdurre surrettiziamente nuove imposte. Sarebbe però ingiusto prendersela soltanto con Letta dal momento che, pur se con stile diverso, non fa altro che continuare sulla strada su cui già camminavano i suoi predecessori, tutti come lui ostaggio della voracità sin qui irrefrenabile dell’apparato statale e dei suoi satelliti para-statali e para-pubblici. Prima ancora del potere legislativo al cuore della politica c’è il potere in materia fiscale.
D’altro canto non a caso i Parlamenti nacquero e si svilupparono attorno al secondo quando ancora il primo restava tutto nelle mani del re (e la storia ha dimostrato che poi il primo venne di conseguenza). Tornando dunque a noi, se la crisi dello Stato italiano è essenzialmente fiscale, finanziaria, allora è quello il problema numero uno, è quello il toro da prendere subito per le corna. In tale prospettiva decenni di esperienza dimostrano che la strada della distinzione tra le responsabilità riguardo alla spesa, distribuite fra Stato e autonomie, e le responsabilità rispetto al prelievo fiscale, tuttora monopolio dello Stato, è fallimentare. Lo spreco di risorse non si ferma e l’evasione dilaga, spesso essendo un’evasione di sopravvivenza.
Occorre cambiare strada appunto puntando innanzitutto sulla responsabilità della persona. Nel concreto della nostra situazione ciò significa: a) riservare a ogni livello di governo (comunale, regionale, statale) specifici campi d’imposizione; b) far coincidere le responsabilità rispetto al prelievo con quelle rispetto alla spesa; c) dare a ogni livello di governo che spende meglio la libertà di tassare meno i propri amministrati.
Approfondiamo ora, seppur minimamente, quanto sopra accennato. In primo luogo la riserva dei campi d’imposizione, prassi comune in tutti i Paesi autenticamente federali. Immaginiamo ad esempio che ai comuni sia riservata la tassazione delle persone fisiche, alle regioni quella sulle persone giuridiche e allo Stato quella sull’energia ( nella realtà il sistema sarebbe un po’ più complesso, ma a titolo di prima esemplificazione questo schema semplice è sufficiente), con riserva per le autonomie di variare o anche azzerare la quota di IVA pure ad esse riservata. Da tale assoluta riserva consegue la libertà per comuni e regioni che spendono meglio di tassare meno i propri amministrati. La pressione fiscale diventa così l’esito dell’incontro tra due responsabilità: quella di chi governa e quella dei contribuenti, rappresentati da consigli comunali e regionali finalmente divenuti importanti.
E’ il contrario di quanto accade oggi nel quadro di una fiscalità governata solo dallo Stato in cui non solo i pubblici amministratori ma anche i contribuenti sono spinti a volere tutto subito (dal momento che da un atteggiamento più responsabile non trarrebbero vantaggio alcuno). Nel nuovo quadro che qui delineiamo il fondamentale strumento di controllo della spesa non sono l’amministrazione statale e le sue polizie bensì la concorrenza degli enti di governo tra di loro, che li spinge tutti quanti a fare meglio e a copiare positivamente chi riesce via via a essere più efficiente. Poi si tratterà di introdurre ovvi meccanismi di compensazione parziale a beneficio di chi non può far meglio per comprovate ragioni oggettive; questo però è tanto ovvio quanto secondario. Qualcuno potrebbe obiettare che tuttavia lo Stato non ha concorrenti. Non è affatto vero; anzi ce li ha già, anche se l’ordine costituito non ama farcelo sapere. E ne è una dimostrazione lampante, tanto per citare un caso clamoroso, l’attuale esodo della produzione della Fiat dall’Italia verso la Polonia e verso la Serbia.
Resterebbe poi aperto il problema, di certo non secondario, dell’ingente rapporto tra prodotto interno lordo e debito pubblico italiano, peraltro gigantesco in Europa ma poca cosa rispetto sia a quello del Giappone che a quello degli Stati Uniti ( di cui i mitici “mercati” non sembrano affatto scandalizzarsi). Al riguardo occorrerebbe trovare qualche nuovo inquilino di Palazzo Chigi che avesse il coraggio di decidere che, per un congruo numero di anni, non di tutto ma di buona parte di esso si continuassero a pagare gli interessi tenendo però contemporaneamente in sospeso la restituzione del capitale. A patto che il pagamento degli interessi fosse davvero garantito, una decisione del genere sarebbe più facile e meno clamorosa adesso che in altri momenti.