Settimana scorsa il governo ha inserito all’interno del Decreto del Fare alcune misure accorpate sotto il titolo Valore cultura. È stato un buon segnale, aldilà del contenuto delle proposte; un segnale di inversione di tendenza, che ben si esprime in quel nome che è stato assegnato. Accomunare “valore” e “cultura” è una scelta azzeccata, a patto di capire bene che senso dare a quel termine “valore”.
Viviamo in un paese in cui chi opera nella cultura in genere vive in maniera molto ambigua il rapporto con il “valore”. Né dà una versione molto idealizzata e abbastanza retorica nelle dichiarazioni pubbliche (della serie: “la cultura è un valore per la crescita e la consapevolezza di tutti”); e, dall’altra parte, ne pratica una versione molto mercantile, quando c’è da difendere interessi o privilegi. Le stesse reazioni a una delle misure contenute nel Decreto lo confermano: il fatto di aver reintrodotto il tax credit a favore delle produzioni cinematografiche italiane ha indotto le associazioni di settore ad applaudire alla scelta di difendere il “valore” cinema.
Ma quale valore, ci si potrebbe chiedere? Impossibile rispondere perché sull’efficacia passata di quella misura che rappresenta, comunque lo si voglia vedere, un privilegio, non è mai stato fatta una ricerca d’impatto. Così viene da pensare che il termine “valore” abbia un’accezione molto materiale, di difesa economica di un settore, o, se vogliamo pensarla male, di una corporazione. Nel Decreto ci sono misure certamente di “valore” in senso sicuro. La scelta di ritornare ai musei gli incassi della bigliettazione, dopo che una sciagurata norma del governo Prodi aveva obbligato a girare gli incassi al ministero dell’Economia, che a sua volta ne tratteneva la metà, girando il restante al ministero dei Beni Culturali, il quale a sua volta li tornava ai musei, è una scelta giusta e di buon senso.
Immaginiamo che una misura di questo tipo sia un incentivo a gestire in modo più “imprenditoriale” le stesse istituzioni museali. È giusta la misura di creare una sovrintendenza staccata per Pompei, Ercolano e Stabia, sia per l’entità dei problemi che devono gestire, sia perché su Pompei, come ha detto il ministro Bray, volente o nolente l’Italia paese della “cultura” si gioca la faccia a livello mondiale. Quindi usare una strategia speciale, dopo le offensive mediatiche degli ultimi anni è una scelta giusta (ricordo che un anno fa Le Monde aveva fatto un’inchiesta su Pompei lanciando la provocazione di sottrarlo alla gestione italiana). Ed è infine una scommessa quella di arruolare 500 giovani laureati per un anno per un’opera di inventariazione e catalogazione dei beni: bisognerà vedere se si trasformerà in un’effettiva chance di formazione e di crescita per i ragazzi o se non prevarrà la vecchia logica del “parcheggio”. Certo di competenze come queste ne abbiamo bisogno per difendere un patrimonio immenso e sempre più a rischio.
Ma per tormare alla parola da cui siamo partiti, c’è un’altra riflessione decisiva da fare. La parola “valore” affiancata a cultura ha un senso pieno se non si dà alla cultura stessa un’accezione intellettuale e accademica. Questo vale in assoluto, ma vale all’ennesima potenza per il nostro paese, data la sua eccezionale storia e le sue eccezionali caratteristiche. Va ristabilito quel legame tra la cultura e il “fare” che è proprio della nostra storia. I nostri grandi artisti sono sempre stati dei formidabili artigiani. E dall’altra parte i nostri grandi artigiani (dal design applicato a tutto, alla moda) sono grandi perché affondano le radici su terreni fertilissimi. In questi giorni di scorribande estive per musei del Centr’italia, quante volte mi è capitato di vedere nella bellezza di un vestito, magari di un santo, un “valore” di bellezza e anche di stile, che continua a generare frutti anche oggi. Guardatevi la coperta che Simone Martini, ad Assisi, sistema sul letto del suo San Martino addormentato.
O i mantelli con cui Beato Angelico veste i suoi santi nel Polittico del bellissimo museo nazionale di Perugia. Capirete che lì c’è grandezza, poesia, bellezza, che sono “valore” in senso pieno, e non intellettualistico o accademico del termine. Nel dna della cultura italiana il “valore” è una bellezza che fa. O un fare che crea nuova bellezza.