Italia, democrazia malata

Tutte le voci del capitolo "giustizia" indicano che l'Italia è una democrazia malata. Per questo è quanto mai necessario che questo governo duri e faccia le riforme. PAOLO TOSONI

Il processo penale e l’esecuzione della pena indicano il livello di tutela dei diritti fondamentali della persona all’interno della società, così come quello civile o del lavoro ne misurano l’efficacia nella capacità di risolvere in tempi ragionevoli i conflitti tra privati, con evidente impatto positivo o negativo sull’economia del Paese.



Bastano questi pochi accenni per comprendere come la nostra sia una democrazia malata: abbiamo un processo penale ferraginoso, sbilanciato sulla fase delle indagini e sull’utilizzo della custodia cautelare e un’emergenza carceri che si protrae da decenni; entrambe le situazioni violano costantemente diritti costituzionalmente garantiti dei cittadini, quali la presunzione di innocenza, la libertà personale, la difesa, la dignità e la rieducabilità dei condannati. 



Anche il processo civile ha tempi biblici, ingessato da una moltiplicazione dei riti e da un’organizzazione delle risorse insufficiente, così come le norme e il rito del lavoro non favoriscono certo la collocazione in entrata dei giovani lavoratori o la flessibilità in uscita degli esuberi: tutto ciò è di grave freno alla nostra economia in crisi, impedendo gli investimenti dall’estero e facendo fuggire le grandi imprese dal nostro Paese, oltre a favorire i furbi e i disonesti che possono “contare” su un sistema incapace di colpirli.

Queste sintetiche osservazioni spiegano come da anni si invochi una riforma complessiva del nostro sistema giustizia e di quello carcerario (anche per evitare i continui richiami della Corte Europea), ma nonostante i proclami fatti da ogni governo che nell’ultimo ventennio si è succeduto, poco o nulla è stato fatto. 



In tema di riforme processuali, il conflitto politica magistratura ha impedito qualsiasi tentativo di cambiamento, ritenendolo sempre strumentale (a volte non a torto).

Con riguardo al problema del sovraffollamento delle carceri e della rieducazione sociale dei condannati, il giustizialismo e l’indifferenza imperanti hanno creato una cultura per cui chi ha sbagliato deve pagare, senza possibilità di recupero; i detenuti, pertanto, nella stragrande maggioranza, vivono parcheggiati nelle proprie celle incapienti, senza fare nulla tutto il giorno per anni: è inevitabile che, più incattiviti di prima, una volta scontata la condanna, fuori dal carcere tornino a delinquere.

Questa visione burocratica della gestione dei detenuti, oltre ad essere indegna di una società civile, è miope dal punto di vista della convenienza sociale: incrementare la possibilità di pene alternative al carcere e favorire il lavoro utile dei detenuti (soprattutto da parte delle organizzazioni esterne che offrono possibilità lavorative all’interno degli istituti penitenziari), in modo da valorizzarli e insegnare loro un mestiere, significa restituire alla società persone realmente in grado di reinserirsi.

È statisticamente provato, infatti, che laddove i detenuti fanno e imparano un lavoro “vero”, una volta usciti la recidiva si abbatte quasi a zero, con enorme risparmio dei costi per l’amministrazione penitenziaria e una minor presenza di soggetti pericolosi per la collettività.

All’attuale Governo, pertanto, chiediamo, dopo aver affrontato le priorità che impone la grave crisi economica del Paese, almeno di incardinare il lavoro per una riforma organica della giustizia e delle carceri.

Materie così delicate e decisive per gli assetti della nostra democrazia, necessitano di una larga condivisione dei criteri ispiratori dei progetti di riforma; questo Governo ha il grande pregio di aver tracciato la strada auspicabile anche per il futuro: operare per il bene comune sui grandi temi e le conseguenti riforme, significa abbandonare gli interessi di parte e trovare sintesi comuni nell’interesse dei cittadini.

Alcune decisioni, oggi, possono essere prese solo se condivise: abbiamo più volte sostenuto che è impensabile porre mano ad una riforma della giustizia senza reintrodurre un filtro tra magistratura e politica (ossia una nuova forma di immunità parlamentare, abolita nel 1993), che garantisca la reciproca indipendenza dei due poteri; ugualmente, è realistico suggerire che alla riforma del sistema carcerario si accompagni un provvedimento di clemenza (amnistia o indulto) che la renda efficacie fin da subito.

Se, finalmente, la politica tornerà al suo nobile compito di servizio per il bene comune, uscendo dalla conflittualità sterile dell’ultimo ventennio, riacquisterà quella forza e autorevolezza che le permetteranno di adottare i provvedimenti e le riforme di cui il nostro Paese ha urgente bisogno.

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