In guerra non importa chi vince o chi perde, ma chi racconta i fatti. L’estate che ci lasciamo alle spalle ha idealmente chiuso la “romantica” primavera araba del 2011 con uno strascico di violenza e di sangue che sembra tipico delle rivoluzioni che pretendono di essere epocali e “salvifiche”. Quello che è rimasto sul proscenio è un quadro disarticolato e complesso, raccontato dai media occidentali in ossequio ai disegni delle grandi potenze straniere e dei piccoli stati nazionali.

Eppure i fatti sono sotto gli occhi di tutti. In Egitto la decennale dittatura di Mubarak è stata prima abbattuta con una meravigliosa primavera mediatica e poi, arrivato al potere – regolarmente eletto – Morsi e la sua “concezione islamica” dello Stato, rimpianta da alcuni strati della popolazione che, affidandosi ancora una volta alle oligarchie militari, hanno rovesciato il sistema democratico e mandato gli integralisti islamici all’opposizione. Il tutto in un bagno di sangue che ricorda più un eccidio che una controrivoluzione. Specularmente il regime di Assad, saldamente al comando in Siria, ha visto crescere una dura opposizione politica che – già che c’era – ha deciso di abbattere insieme al governo la piccola presenza cristiana della regione. L’uomo nero di Damasco avrebbe risposto in modo duro e cruento, arrivando allo sterminio di vittime innocenti con l’uso di armi chimiche e aggravando, fino al collasso, la già precaria situazione dei profughi siriani in fuga verso il Libano e la Giordania. 

E in tutto questo la Grande Unione Europea che cosa ha fatto? Quello che ha fatto l’America di Obama: ha seguito i notiziari su Sky. Il vero problema che lo scacchiere mediorientale ci offre non è la composita situazione etnica e religiosa della regione (dato storico ineludibile), ma la totale assenza di una politica estera da parte di Stati Uniti ed Unione Europea. Quello che a noi interessa, per non sparare troppo sulla croce rossa obamiana, è l’Europa, questa grande casa comune che ha smesso di essere un attore politico all’inizio degli anni novanta per trasformarsi in uno dei tanti soggetti dell’economia capitalista. Proprio in questa delicata crisi mediterranea, in cui non è facile assegnare le parti di “buoni” e “cattivi”, l’Europa potrebbe riunire le fazioni ad un tavolo e spiegare che il futuro di un popolo o lo si costruisce insieme o lo si distrugge. Invece di avvallare splendidi bombardamenti di pace, la voce dell’Europa dovrebbe promuovere soluzioni alternative che offrano alle parti coinvolte un vero patto generazionale, intestando all’Unione Europea non tanto la guida di un processo militare, quanto di un progetto educativo. 

Quello a cui noi assistiamo oggi è la fine dell’Europa come soggetto politico, legata mani e piedi a quell’economia tedesca che doveva essere solo uno stimolo alla crescita e alla modernizzazione degli altri paesi europei e che invece si sta rivelando come una temibile arma di omologazione sociale e culturale. Più l’Europa è cresciuta nei numeri di “soci aderenti” più paradossalmente si è spento lo spirito europeo che faceva degli Stati Uniti d’Europa una sfida di speranza e di pace per tutti gli uomini. Il fattore economico fu messo dai Padri fondatori dell’Unione al centro del progetto costituente proprio per favorire legami reali tra i vari paesi e non per permettere situazioni inedite di sopraffazione e di dominio fra i popoli. 

Non c’è da stupirsi, quindi, se un continente privo di identità e di radici comuni riconosciute, soggetto solo alle spinte opportunistiche del mercato, stia per essere travolto dai flussi migratori arabi e orientali, e non c’è da stupirsi se il rinnovo del Parlamento tedesco del prossimo 22 settembre sia più interessante che le stesse elezioni europee della primavera del 2014. Eppure basterebbero tre passi semplici per ridare dignità e speranza al progetto di integrazione: una comune legge elettorale europea, un presidente della Commissione eletto a suffragio universale dai cittadini di tutti i 27 Stati dell’Unione e una Commissione che armonizzi le 27 costituzioni vigenti in un documento quadro per la nascita di un’Unione Federale delle Repubbliche Europee. Fantapolitica? Si, forse. Ma decisamente più ragionevole di chi vuole riempire il nostro futuro, e quello dei nostri figli, ancora di bombe siriane e di spread tedeschi.