Stiamo ripercorrendo alcuni dei passi che Dante fa nell’inferno, luogo dove l’uomo ha perso definitivamente il proprio volto e la propria consistenza, dove la condanna segna perpetuamente la sconfitta di qualche cosa di essenziale per cui l’uomo si può dire veramente tale. Sicuramente l’amore è una di queste cose. Si tratta, però, di intendersi su cosa amore sia. Gran parte della poesia, della narrativa e della trattatistica con le quali Dante era cresciuto ne parlavano come di una potenza incontrollabile, di un sentimento anche elevato e nobile, ma al quale non si poteva far altro che cedere, assecondandolo in tutte le sue esigenze. Non molto è cambiato da allora, se non che questa «teoria dell’amore» dai cieli della poesia cortese è piovuto sulla terra del sentire comune. Nessuno obietterebbe, oggi, sentendo un collega che, abbandonata la famiglia per seguire una fiamma scoppiata improvvisamente, si giustificasse dicendo: «Che male c’è? Ci vogliamo bene». «L’amore è amore» ha scritto Obama per rallegrarsi della sentenza della suprema Corte americana che apre la strada alla parificazione della unioni gay ai matrimoni. «Basta che vi vogliate bene» sembra il massimo degli auguri che si possa fare ad una coppia che decide una qualche forma di stabilità (del resto sempre più rare, dato il fatto che se l’amore è così tiranno e volubile, chi si impegna più in qualcosa di duraturo?).
È proprio questo punto di vista – che è stato quello della sua giovinezza e di parte della sua stessa precedente produzione poetica – che Dante rigetta nel celeberrimo canto quinto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca. La vicenda è arcinota: i due cognati sono diventati amanti e, sorpresi dal marito di lei, sono stati uccisi. Esagerazioni, diremmo oggi; ma per Dante è invece l’occasione per fare i conti esattamente con la diffusa concezione dell’amore di cui parlavamo prima. Egli la sintetizza nei celebri versi con cui Francesca inizia a raccontare la sua storia: «Amor che a nullo amato amar perdona».
Non è così, replica Dante. Non solo perché quell’avventura è finita in tragedia; basterebbe in questo caso – come del resto è successo – allentare i vincoli del comune senso del pudore per non farsi più problemi di fronte ad un «banale» tradimento. Neppure solo perché i due concubini hanno violato un precetto morale; anche in questo caso basterebbe allargare le maglie della legge e il gioco sarebbe fatto. Il punto è che quello non è amore. O, meglio, è un amore tarpato, rattrappito, conculcato.
Infatti per descrivere i dannati che trova in questo secondo cerchio infernale – cioè i lussuriosi, trascinati da una perenne bufera così come in vita si sono abbandonati al vento della passione – Dante usa un’espressione precisa: coloro «che la ragion sommettono al talento», cioè sottomettono la loro capacità di comprendere, valutare, ordinare ad uno scopo (ragione) a quello che attira momentaneamente, all’istinto (talento). Commenta Anna Maria Leonardi Chiavacci: «Il sottoporre la ragione all’istinto è degradazione dell’uomo, che nell’uso della ragione ha la sua qualificazione specifica, che lo distingue dal bruto». Ecco, la riduzione dell’uomo a bruto è sicuramente uno degli aspetti più inquietanti dell’«emergenza uomo» di fronte alla quale ci troviamo, e il suo esplicitarsi nell’ambito dell’amore ne è la forma più malinconicamente triste.