Personalmente ho conservato tutt’e due le copie, ed era davvero tanto, tanto tempo che non mi veniva il desiderio di tener via il numero di un quotidiano, come si tiene via una cosa importante, nella certezza che anche tra qualche anno la si sfoglierà con attenzione ed emozione. Martedì sulla Stampa le prime cinque pagine accoglievano il grande racconto di Domenico Quirico, l’inviato liberato dopo cinque mesi di drammatica prigionia nelle mani dei ribelli siriani. Mercoledì è stata la volta di Repubblica che apriva a tutta pagina per pubblicare la straordinaria risposta di Papa Francesco alle due lettere pubbliche che il fondatore del giornale, Eugenio Scalfari, gli aveva indirizzato quest’estate.
Che stupore vedere nello spazio abitualmente destinato alle grandi firme del quotidiano romano, quella semplice e nuda di “Francesco” (senza neppure “papa”). Semplicemente “Francesco”. Solo in quella firma c’era una rivoluzione giornalistica…
Si potrebbero attingere dal drammatico racconto di Quirico come dalla stupenda testimonianza del Papa decine di spunti, di quelli che restano impressi nella memoria: come ad esempio le parole dell’inviato che raccontano la fuga biblica dei 25mila profughi nella notte attraverso gli altipiani siriani. Oppure come il passaggio del Papa in cui con un’attenzione stupefacente all’umano delinea cosa sia “verità”.
Ma il ragionamento che in questo momento vorrei fare è un altro: quelle due copie “preziose” dimostrano come tutti i noiosissimi discorsi che in questi anni si stanno facendo sull’irreversibile crisi dei quotidiani non tengano conto di un fatto elementare. D’accordo: i quotidiani sono in crisi per il dilagare di Internet, sono in crisi perché le giovani generazioni hanno abitudini di lettura completamente diverse rispetto a noi. Ma sono soprattutto in crisi perché non hanno più nessuna capacità di parlare di grandi cose, di rompere la routine dell’informazione autoreferenziale. Tra l’informazione e la vita si è aperto un baratro quasi angoscioso. Le mura delle redazioni sono come quelle dei fortini dove si vive protetti da meccanismi di garanzia fuori dalla storia, senza capire di essere in realtà assediati. “Questo ormai anacronistico impianto di regole, pensato nell’era del piombo e nella preistoria della prima repubblica, prima o poi cadrà. Con fragore e conseguenze imprevedibili sulle nostre ignare teste”, aveva scritto in una lettera alla sua redazione, mesi fa, il direttore del maggior quotidiano italiano.
Si può pensare che siano tutti problemi di un settore e di una categoria; che il mondo potrà andare avanti benissimo anche se i quotidiani si estinguessero.
Invece aprendo martedì e mercoledì quei due giornali ci si accorgeva che ci sono anche altre implicazioni. E che l’estinzione toglie qualcosa anche a noi che leggiamo, ci priva di una ricchezza che ogni giorno da tanto tempo ci viene negata, ma che è una ricchezza possibile.
Non si tratta di dare lezioni: ma da lettore si sente il bisogno di un’informazione capace di ristabilire un collegamento con le grandi, quotidiane domande che segnano la vita di ogni giorno. Che abbia il coraggio di rompere i conformismi, di inoltrarsi ad esempio nelle “periferie dell’esistenza” evocate così spesso con grande efficacia “giornalistica” dallo stesso Papa: quelle “periferie” non sono territori speciali ma sono territori del tutto contigui a quelli in cui noi viviamo. E non per soffermarsi sadicamente sulle “patologie” ma per raccontare attese, bisogni, desideri nostri e degli uomini che vivono in questo tempo. Certo ci vuole un po’ coraggio. Ma se è così grande la disaffezione che fa perdere copie giorno dopo giorno, e se sono così allarmanti i numeri dei bilanci, c’è davvero poco da perdere.