“Settembre, è tempo di migrare”. Questo verso de I Pastori di D’Annunzio esprime molto bene la necessità che tutti – chi più, chi meno – avvertiamo a settembre: l’inizio della nuova stagione ci chiede, infatti, di voltare pagina e di ricominciare. La Chiesa, nella sua grande maternità, pone al cuore di settembre la festa dell’Esaltazione della Croce. Non si tratta semplicemente di una ricorrenza, ma di un giudizio che la tradizione cattolica offre sul tempo e sulla storia.
In effetti, che cosa mai può voler dire ricominciare, voltare pagina, dopo la morte di una persona cara, dopo la fine di un legame importante – d’amore o d’amicizia che sia – o, più semplicemente, dopo un tempo di riposo e di vacanza come quello estivo? Nel mostrarci la Croce, la Chiesa ci fa capire che per voltare pagina bisogna prima giudicare ciò che ci lasciamo alle spalle, rammentandoci che dietro ogni dolore – dietro ogni fatto della vita – c’è sempre una Parola d’amore. “È tutto amore”, ha detto poco tempo fa Papa Francesco.
Quando finalmente cadono tutte le nostre resistenze, e le pretese di giustizia che abbiamo, allora – dentro il dolore – possiamo riconoscere una sfida che il Signore ci fa, una sfida d’amore: “mi ami Tu, amico mio?”. Fa impressione guardarsi alle spalle e cogliere come ogni sofferenza, ogni respiro affannoso ed ogni ferita subita sia semplicemente stato il gesto supremo di cura con cui Dio si è permesso di richiamarci al nostro compito e alla nostra responsabilità ultima, che è quella dell’amore. Il dolore, insomma, altro non è che l’ultimo piede che Dio prova a porre prima che si chiuda definitivamente la porta del nostro cuore.
Recentemente, con molti altri amici, ho avuto modo di riflettere sul brano del Cantico dei Cantici – forse il più bello tra i libri della Bibbia – in cui la sposa si sveglia di notte e non trova nel letto il proprio amato. Come a quella sposa, anche a noi sembra che il dolore sia un gesto crudele, un atto che ci toglie qualcosa. Di fronte ad una simile percezione, noi rimaniamo nel letto vuoto a piangere, passando la nostra mano su ogni centimetro del materasso ancora caldo, riempiendoci di ricordi e di lacrime. Ma la donna del Cantico non si ferma al letto vuoto. Essa si alza e inizia a cercare l’Amato del proprio cuore in ogni angolo della città. Ogni dolore, infatti, ci è dato per ricominciare a cercare ciò che davvero nutre la nostra vita.
Non importa in che stato ci troviamo, non importa che cosa ha lasciato vuoto quel letto: peccatori incalliti o santi alle prime armi, tutti – ma proprio tutti – possiamo iniziare ad alzarci e a rimetterci all’opera per cercare quel Volto che realmente ci manca. La bellezza della vita, per ognuno di noi, non si interrompe quando le cose finiscono, ma quando noi smettiamo di desiderare e iniziamo a trattenere, a mettere al sicuro quel poco che ci rimane, quel che – detto molto volgarmente – riusciamo ad arraffare. Chiusi nella nostra cassaforte, l’amore, il lavoro, la casa e i figli diventano così i nostri idoli e Dio ci appare come un ladro in cerca di rubare tesori preziosi. In realtà Egli desidera solo rompere la cassaforte perché tutto ciò che è nostro sia nostro per sempre. E una cosa, per essere “nostra”, deve poter correre davvero nelle Sue mani.
Mi riecheggia spesso nella mente quel canto alpino che, a parere mio, è un grande inno alla croce e all’amore che essa cela, “La ceseta de Transaqua”. Ad un certo punto – bisogna immaginarsele certe cose – il combattente stanco, tornato a casa, riguarda tutta la strada fatta e, come direbbe Lewis, si ritrova “sorpreso dalla gioia”, al punto tale che, con le lacrime agli occhi, non può fare a meno che dire: “Cosa importa se g’ho le scarpe rote? Mi Te vardo e me sento il cor contento!”.
Io vorrei che ognuno di noi, guardandosi indietro, potesse ridere delle proprie scarpe rotte e, nel silenzio di quel sorriso, recuperare la certezza più grande della vita: siamo amati, siamo voluti, siamo cercati da Uno che, per noi, vuole la vita.
Così, magari con quell’ultima lacrima che stenta ad andarsene (e che forse non deve andarsene), vi auguro di svegliarvi una notte e di avere sete, vi auguro di prendere un bicchiere d’acqua buona e di guardare – nel riflesso di quell’acqua – il tempo che è passato e le cose che non sono più. Infine, con quella letizia che viene solo da Dio, vi auguro di alzare quel bicchiere e di improvvisare – lì, nel cuore della notte – un maldestro brindisi: alla vita e ai doni che vi ha offerto, a Cristo che non vi ha mai abbandonato e alla vostra libertà che ha avuto il coraggio di gettarsi nelle Sue mani.
Vi auguro tutto questo per un motivo molto semplice: perché, nell’ironia di quel brindisi, inizierà per voi settembre, quel tempo in cui, davvero, si volta pagina.