In sede europea, invece di continuare a farci mettere in castigo dietro la lavagna, dovremmo cominciare a dire chiaro e tondo che i trattati su cui si fonda l’Unione Europea vanno riscritti. E innanzitutto ne vanno profondamente rivisti i principi ispiratori che tra l’altro di fatto penalizzano l’Europa mediterranea, quindi in particolare l’Italia, principale Paese di tale area.
Quando perciò, come recentemente a Bari, il premier Enrico Letta dice che il Mezzogiorno per rimettersi in marcia deve divenire “più europeo”, afferma un principio giusto e sbagliato nello stesso tempo. Giusto in quanto nel suo linguaggio la parola “europeo” è sinonimo di “efficiente, moderno, serio”. Sbagliato nella misura in cui riaccredita un luogo comune – quello del Nordeuropa secolarizzato, di tradizione protestante, come faro della modernità verso cui tutti quanti dobbiamo andare col cappello in mano – che in effetti gioca contro non solo l’Europa mediterranea ma anche l’Europa in genere. In realtà il Mezzogiorno si potrà rimettere in moto soltanto se diventerà più mediterraneo nel migliore senso del termine. Se insomma diventerà un antesignano efficiente del riequilibrio di un’Ue che gravita troppo verso il Baltico.
Beninteso, l’Italia ha tutti i problemi che ha. In particolare il debito pubblico, che da qualche anno a questa parte non ha mai smesso di crescere, e l’amministrazione statale, un gorgo di sprechi e di inefficienza. Sono problemi preliminari di fondo che nessuno degli ultimi governi è mai riuscito seriamente ad affrontare. Alcuni ci hanno provato senza riuscirci, altri si sono limitati a fare grandi annunci rimasti poi senza alcun concreto riscontro. Tuttavia la via d’uscita da questa palude non consiste nel richiamo mitico all'”Europa”, bensì nello sviluppo e poi nella rigorosa attuazione di un progetto politico di ampio orizzonte fatto a partire da ciò che il nostro Paese ha, da ciò che il nostro Paese è e da dove si trova.
Il nostro Paese è innanzitutto la sua storia e quindi la sua cultura con tutto ciò che ne deriva in termini di creatività e di capacità di relazione con l’altro: delle risorse che vengono prima della politica e che la politica non deve sostituire bensì facilitare o quantomeno non ostacolare. Il nostro Paese è da secoli un crocevia principale della civiltà umana. Se, in quanto capitale inadatta di uno Stato sempre più in crisi, Roma non fa molta notizia sulla scena internazionale, in quanto prima ribalta di una sequenza di Papi di grande forza carismatica è ormai da circa cinquant’anni uno dei luoghi verso cui si guarda da tutto il mondo.
E ciò gioca di riflesso anche a vantaggio dell’Italia in quanto tale. Infine il nostro Paese si trova al centro del Mediterraneo, che sta uscendo dalla posizione secondaria in cui contro natura le potenze nordatlantiche l’avevano cacciato sin dalla fine del secolo XVI. Questa è una grande occasione da non perdere, ma per non perderla occorrono delle idee e una volontà politica che finora mancano.
La strada che dobbiamo percorrere per uscire dalle nostre difficoltà è pertanto ben diversa da quella che ci prospettano. Non si tratta di rimettere i conti a posto perché “l’Europa ce lo chiede” per poi in seguito mettere mano alle riforme di struttura che ci verranno consentite da un’Europa divenuta un insieme di satelliti che ruotano attorno alla Germania. Si tratta piuttosto di promuovere tali riforme senza farsele dettare da Bruxelles. E da qui, in una posizione non subalterna, contribuire poi alla rinascita dell’Unione Europea su basi diverse da quelle gelide e astratte di Immanuel Kant e del suo Per la pace perpetua cui si sono evidentemente riferiti gli ispiratori dei più recenti sviluppi delle istituzioni europee. Volendone ignorare le radici cristiane, questa gente ha finito per censurare l’intero patrimonio di storia e di culture di cui l’Europa consiste. Perciò l’Unione si sta disfando proprio in un momento in cui di essa ci sarebbe grande bisogno.