Che cos’è l’amicizia? La domanda mi è sorta leggendo i risultati di una ricerca prodotta dalla Società Pediatrica Italiana in cui si afferma che, rispetto al passato, oggi sono molto più diffusi i legami multipli che le amicizie strette. La ricerca offre anche alcuni dati esplicativi: l’85% degli adolescenti predilige il gruppo all’amico del cuore e quasi un terzo degli adolescenti entra in contatto per la prima volta attraverso internet, Facebook in testa. Ora, i dati sono interessanti ma, a meno di non leggerli con una lente di ingrandimento pregiudizievole, essi non ci aiutano a capire che cosa realmente stia succedendo nel mondo degli affetti e che cosa significhi concretamente oggi “essere amici”. Per questo è fondamentalmente utile rivolgersi alla storia: per interpellarla sull’essenza stessa dell’amicizia.
Nel mondo classico, anzitutto, l’amicizia è stata definita da Cicerone come “idem volle, idem nolle”. Volere la stessa cosa e non volere la stessa cosa implica riconoscere nell’amicizia un legame interiore che unisce gli amici in una sorta di grande soggetto cui la storia di ciascuno partecipa. Confermando tale tendenza, i padri della Cappadocia sostenevano che essere amici significasse “avere la stessa anima in due corpi diversi”. L’amicizia si configurerebbe così come un’unità naturale espressa da un rapporto di condivisione e di affetto. Il cristianesimo ha talmente scommesso su questo tipo di legame da presentare i primi Ministri della Riconciliazione, provenienti dal monachesimo irlandese, come gli “amici dell’anima”, configurando un rapporto che pone, fra i suoi contraenti, uno spazio di intimità unico in cui ciascuno può essere davanti all’altro libero e se stesso.
Esistenzialmente, quindi, l’amicizia è uno spazio di autenticità che si crea, per Grazia, fra due persone. Questo spazio ha tre caratteristiche: è intimo (inerente l’interiorità), è libero ed è nutrito dalla frequentazione, che permette al rapporto stesso di essere continuamente scelto e, quindi, fecondato dalla libertà di ognuno. Ma qual è lo scopo di questo spazio? Su questo tema si nasconde la vera tentazione che, in italiano, è ben descritta dalla parola “delega”. L’amicizia può infatti diventare uno spazio dove “deleghiamo” un pezzo della nostra vita, anche consistente, all’altro, agli altri. Questo accade perché, proprio per il fatto di essere una relazione intima, l’amicizia si presta all’equivoco di essere un rapporto “senza confini” dove ciò che si fa insieme è in qualche modo “ciò che faccio io” e ciò che fa l’altro continua, sempre in qualche modo, l’opera della mia vita. Un rapporto di amicizia così inteso blocca il cammino personale dell’Io e riduce la nostra libertà all’adesione al gruppo, ad una mera condivisione sentimentale o ideologica di istanze espresse o sottintese.
Delegare, infatti, significa allontanare me stesso dalla mia vita, affidando all’altro l’onere di costruire risposte ai miei problemi quotidiani, proteggermi dall’urto con le cose, attivare, orientare e definire la mia forza vitale, nonché restituirmi l’esatto valore della mia esistenza attraverso un suo implicito o esplicito atto di approvazione. Delegare vuol dire, insomma, nascondersi, deresponsabilizzarsi, consegnarsi all’altro nell’illusione che ciò mi faccia crescere.
Gesù non si è comportato così. Egli ha usato dell’amicizia per comunicare se stesso. Con questo gesto ha definitivamente sottratto ogni legame di amicizia all’incubo della “delega” (anche solo spirituale) per porre l’amicizia nell’ottica della carità. La carità, infatti, altro non è che la comunicazione dell’amore di fondo che ci anima e che ci guida, la comunicazione di sè.
L’amicizia, in quanto gesto di carità, è quindi un legame, uno spazio di intimità, in cui lo scopo è la comunicazione di se stessi per contribuire reciprocamente al cammino l’uno dell’altro. In questo senso, possiamo dirlo senza timore, con Gesù l’amicizia è divenuta una virtù, un modo consueto attraverso il quale gli uomini si esercitano e si aiutano a correre verso il Bene.
Questa virtù, proprio per il fatto di tendere a diventare un reale contributo alla nostra vita, si nutre di due dinamiche: una interna, che è la partecipazione e una esterna, che è l’adorazione. Un’amicizia che non è operativa, che non partecipa di un disegno più grande, rischia di diventare l’antro borghese nel quale nascondere tutte le nostre paure e al quale demandare le nostre responsabilità. Quando l’amicizia cessa di essere un movimento con uno scopo, cessa di essere alimentata da un’appartenenza (direbbe Gaber) o da un carisma (direbbe la Chiesa), essa si riduce a poco più che una stazione della metro, dove tutti attendono qualcosa e si parlano giusto per ingannare il tempo e per ammortizzare l’urto con la storia cercando, al massimo, di costruire un qualche legame di potere. Il test che un’amicizia è di siffatta natura, che partecipa internamente a qualcosa di più grande, è l’adorazione, ossia il rivolgersi all’altro, a qualunque altro, con un desiderio immenso di imparare e di crescere, di rintracciare negli occhi e nel volto di ciascuno un po’ di quel Mistero che nutre la nostra vita e che tesse la nostra amicizia. Senza adorazione i nostri rapporti diventano un clan, una simpatica setta, dove fiorisce solo la pretesa e la sottile violenza.
La nostra società ha bisogno di ritrovare la forza della vera amicizia. Che nasca su Facebook o al bar, che sia con cinquanta volti o con una persona, tutti abbiamo bisogno di ricominciare a costruire rapporti che facciano fiorire le nostre potenzialità e promuovano la nostra umanità. Per questo la pubblicazione del libro sulla vita di don Giussani, avvenuta in Italia proprio in questi giorni, è uno dei contributi più importanti che il Cattolicesimo oggi offre per lo sviluppo e per la ripresa del nostro Paese. Perché solo sperimentando un’appartenenza autentica e un sincero sguardo di adorazione sulla realtà, come quello testimoniato da don Giussani nei suoi ottantadue anni di vita, che il nostro Io e la nostra Italia possono ripartire. E’ questa intensità di vita che auguro e che chiedo al buon Dio per tutti, soprattutto per coloro i quali che anch’io mi onoro di chiamare “amici”.